L’albero è la mia ancora

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The Tree Is My Anchor è il titolo di un articolo scientifico apparso qualche anno fa sull’International Journal of Environmental and Public Health a firma di un gruppo di ricercatori danesi. Di che cosa parla? Di un innovativo modello di trattamento del BED mediante la cosiddetta Forest Therapy.

Con questo termine, coniato in Giappone col nome di Shinrin Yoku intorno agli anni Duemila, si definiscono una serie di tecniche che hanno come fattore comune l’esposizione dei pazienti a una serie di attività che vengono condotte durante un’immersione consapevole in una foresta certificata come terapeutica, i cui alberi rilasciano composti volatili (in partica olii essenziali) che sono in grado di interagire con l’organismo umano a livello neuro-psico-endocrino-immunologico. Si tratta di una tecnica terapeutica ancora poco utilizzata in Italia, ma alla quale noi stessi ci siamo formati.

I risultati dello studio, originariamente eseguito su venti pazienti affetti da Disturbo da Alimentazione Incontrollata (BED), forniscono un primo supporto alla fattibilità dell’implementazione della Forest Therapy nel trattamento del BED. Una delle potenzialità di questo approccio terapeutico sembra essere quella di aiutare a concretizzare e “ancorare” il contenuto terapeutico attraverso esperienze fisiche ed esercizi, rendendolo così più accessibile e applicabile per i partecipanti.

Tuttavia, i risultati devono essere testati su un campione randomizzato più ampio. A nostro parere sarebbe utile associare futuri studi anche a programmi che includano una dieta consumata direttamente in una foresta terapeutica, o comunque in un ambiente a contatto con la natura.

Se l’argomento vi interessa, vi suggerisco di tenere d’occhio gli studi di questo gruppo di ricerca che sta continuando a indagare gli effetti di questo approccio terapeutico in pazienti affetti da DCA.

Horses & Butterflies

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Gli Interventi Assistiti con gli Animali (IAA) rappresentano un approccio innovativo di supporto alla riabilitazione psichiatrica e ai disturbi del neurosviluppo, potendo potenzialmente incidere su molteplici domini funzionali, che vanno dall’espressione delle emozioni alle abilità motorie.

Coniugando gli effetti benefici della relazione emozionale instaurata con il cavallo con la stimolazione motoria ritmica, nell’ambito del Progetto pilota Horses & Butterflies, è stato sviluppato un protocollo di riabilitazione equestre, basato sul volteggio equestre, per contrastare l’anoressia nervosa, che rappresenta uno tra i più frequenti disturbi del comportamento alimentare dell’età adolescenziale.

Horses&Butterflies è un progetto pilota che si colloca nell’ambito del più ampio Progetto europeo Sphere, realizzata in collaborazione con il Centro per i Disturbi Alimentari di Umbertide (PG), su iniziativa del Comitato Regionale Federazione Italiana Sport Equestri (FISE) Umbria.

Il Progetto Horses&Butterflies ha coinvolto sette ragazze con diagnosi di anoressia nervosa (quattro per il gruppo di controllo e tre per il gruppo che ha praticato il volteggio equestre), arruolate presso il Centro DCA di Umbertide (PG) diretto da Laura Dalla Ragione. Ogni seduta era composta di quattro fasi: approccio al cavallo e pulizia dell’animale (grooming), sensibilizzazione corporea (esercizi di respirazione, orientamento e conduzione a mano del cavallo), lavoro a cavallo e pulizia finale del cavallo.

Tra i risultati ottenuti si è osservato un aumento della massa grassa e una riduzione del peso della massa magra, nonché una migliore gestione dell’ansia e un aumento della socievolezza delle pazienti. Tali risultati, sia pur preliminari, indicano come la pratica del volteggio equestre possa essere utilizzata efficacemente nel caso di disturbi del comportamento alimentare a complemento di una presa in carico globale della persona.

 

Terapia personalizzata dell’obesità

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Facendo seguito al post sui fenotipi dell’obesità, vediamo come utilizzare tale teoria a fini terapeutici.
1. I pazienti con un cervello affamato (che presentano cioè una sazietà anormale), e che necessitano di più calorie a ogni pasto per raggiungere la sazietà, possono trarre il massimo beneficio dalla limitazione della frequenza dei pasti (as es. Digiuno Intermittente) e dalla diminuzione della loro densità energetica per ridurre l’apporto calorico. Una dieta ipocalorica ricca in fibre alimentari alternata a un protocollo di IF è associata a un miglioramento della sensazione di appetito, a una maggiore sazietà e a una compliance più prolungata.
2. I pazienti con un intestino affamato (sazietà normale associata a svuotamento gastrico accelerato), a causa di concentrazioni postprandiali più basse di GLP-1, possono trarre beneficio da una dieta ad alto contenuto proteico con precarichi proteici per migliorare il GLP-1. Le diete ad alto contenuto proteico hanno determinato una perdita di peso e un miglioramento della sazietà anche con un follow-up a lungo termine. Inoltre, è stato dimostrato che i precarichi proteici rallentano lo svuotamento gastrico in partecipanti sani e in pazienti con diabete di tipo 2 con concentrazioni di GLP-1 postprandiali più elevate. Questi sono anche i pazienti nei quali gli analoghi del GLP-1 hanno dimostrato la maggiore efficacia.
3. I pazienti con il fenotipo della fame emotiva possono trarre i maggiori benefici da un intervento psicoterapeutico comportamentale strutturato per la definizione degli obiettivi, l’automonitoraggio e il controllo degli stimoli. Inoltre, è stato dimostrato che gli approcci basati sulla mindfulness riducono l’alimentazione emotiva e aiutano ad aumentare l’autoconsapevolezza.
4. Un basso dispendio energetico facilita l’aumento di peso promuovendo un bilancio energetico positivo. La riduzione del tasso metabolico sarebbe l’aspetto critico da affrontare nei soggetti “a combustione lenta”. È stata riscontrata un’eccellente relazione dose-risposta tra l’allenamento di resistenza e l’ipertrofia muscolare. Inoltre, in questi casi si è visto che diete a basso contenuto di carboidrati e ad alto contenuto proteico hanno migliorato la forza e le dimensioni dei muscoli aumentando il dispendio energetico. Laddove sia presente una malattia metabolica, la terapia di quest‘ultima diviene ovviamente prioritaria.
Questo almeno è cio che si può dire per certo – ad oggi – sulla base dei dati disponibili.

Gli obesi non sono tutti uguali

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Vi siete mai chiesti come mai vi siano così tanti fallimenti terapeutici nella terapia dell’obesità? Il motivo è presto detto; gli obesi non sono tutti uguali. Quando si parla di obesità infatti, se ne possono distinguere almeno quattro tipi diversi che hanno cause diverse e che necessitano pertanto di trattamenti individualizzati. In questo post cercherò di spiegarveli.
1. L’obesità che dipende da un cervello affamato origina dal fatto che l’individuo non riesce a percepire i segnali della sazietà continuando a ingurgitare cibo senza sentirsi pieno. Questo tipo di problema deriva solitamente da un profilo genetico che presenta alterazioni dei geni che controllano gli ormoni della sazietà. In questi casi il paziente vi dice che per quanto mangi gli sembra di non sentirsi mai sazio.
2. L’obesità che dipende da un apparato gastrointestinale affamato deriva dal fatto che l’individuo riesce apparentemente a saziarsi e a terminare il pasto ma poi, dopo poco tempo, ricomincia a provare la sensazione di fame e ricomincia a mangiare, come se lo stomaco si svuotasse in maniera eccessivamente rapida. Questo tipo di problema dipende dal profilo ormonale digestivo e può dipendere da una combinazione di fattori genetici e comportamentali. In questi casi il paziente vi dice che quando mangia si sazia ma che, dopo un po’, gli ritorna la fame.
3. L’obesità che dipende dal mangiare emozionale deriva dal fatto che l’individuo utilizza il cibo come se fosse uno psicofarmaco per gestire emozioni disturbanti. Questo tipo di problema dipende da una errata abitudine acquisita solitamente in tenera età ma possono essere presenti anche profili genetici specifici che paiono predisporre a tale condizione. In questi casi il paziente vi dice che tende a mangiare quando è teso, depresso, ansioso o arrabbiato.
4. L’obesità che dipende da un metabolismo rallentato deriva dal fatto che l’individuo presenta una scarsa massa muscolare o è affetto da anomalie metaboliche di diverso tipo (ad es. diabete o sindrome metabolica, etc.) che rendono il suo metabolismo più lento compromettendo il dispendio energetico. Questo tipo di problema dipende solitamente dagli esiti di un errato stile di vita o dall’utilizzo di alcuni farmaci ma, nei casi a insorgenza giovanile, possono essere implicati specifici profili genetici. In questi casi il paziente vi dice che, per quanto mangi poco, sembra che qualsiasi cosa mangi lo faccia ingrassare.
Da questa suddivisione dovrebbe essere molto chiara la differenza che esiste tra i diversi fenotipi patologici e il tipo di terapie da attuarsi in ciascuno di questi.
Non occorre essere dei maghi per trattare con successo questi pazienti, l’importante è fare una valutazione adeguata del loro fenotipo fin dal primo consulto.
Va da sé che nei casi più avanzati diviene possibile anche una sovrapposizione tra alcuni di questi quadri e questo complica sia la diagnosi che le terapie. Ecco perché il miglior trattamento dell’obesità è sempre quello precoce.
Un’ultima precisazione. Dato che ho citato più volte l’influenza della genetica, ricordo a tutti che quando si parla di geni ci si riferisce sempre a un concetto di predisposizione e non di predestinazione.
Anche nei casi in cui è presente una genetica sfavorevole è importante concentrare le terapie sul tipo di problema sottostante, al di là della predisposizione in sé. La cosa importante da ricordare per quanto riguarda il profilo genetico dell’obeso è che alcuni nuovi farmaci (come la semaglutide) funzionano quasi esclusivamente per determinati profili e non per altri.

Quando l’Alzehimer si maschera da DCA

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Oggi vorrei parlarvi di un sintomo che mima il quadro di un DCA senza esserlo e che rappresenta invece uno dei segni premonitori della malattia di Alzheimer, un tipo di demenza che si caratterizza per una serie di disturbi cognitivi e comportamentali e per un quadro neurodegenerativo che porta a morte prematura i pazienti che ne sono affetti.

Pochi lo sanno (e mi riferisco anche a molti medici non specialisti in neurologia) ma uno dei primi segni della malattia consiste in un cambiamento delle abitudini alimentari che può apparire talora paradossale. Pensate a un vegano che inizia a preferire le carni, o a una persona che tendeva a mangiare prevalentemente insipido che inizia ad aggiungere grandi quantità di sale e/o spezie, a un individuo intollerante al lattosio che iniza a nutrirsi di latticini o, ancora, a una persona che mangia in continuazione mentre prima aveva sempre osservato una rigorosa moderazione ai pasti.

Qual’è il motivo per cui si verificano questi sintomi? Pare che la motivazione sia da ricercarsi in una progressiva perdita del senso del gusto che può verificarsi tanto nelle fasi precoci quanto nelle fasi avanzate della malattia. A questo si deve poi aggiungere il deficit mnesico che fa sì che i pazienti perdano la memoria delle loro precedenti abitudini e/o preferenze alimentari, fino a dimenticarsi di avere già consumato un pasto e a sentire nuovamente la sensazione della fame.

A tutto questo si aggiunge il fatto che con il progredire della demenza le persone affette da Alzehimer possono dimenticare le regole della tavola, come l’uso delle posate, o gli orari dei pasti inizando così a nutrirsi negli orari più strani.

Dato che sarebbe importante che i pazienti affetti da questa malattia seguissero una dieta ricca in alimenti antinfiammatori e antiossidanti, è davvero importante che le persone che si prendono cura di questi pazienti siano al corrente di queste problematiche. Certo questo non servirà a cambiare radicalmente il loro destino ma sicuramente migliorerà la loro qualità della vita e potrà servire in alcuni casi ad arrivare a una diagnosi precoce.

 

Quando usare il BETQ e perché

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Il Binge Eating Trigger Questionnaire (BETQ) è uno strumento di indagine progettato per identificare i fattori scatenanti che portano gli individui a mettere in atto comportamenti di abbuffata. Sviluppato per approfondire la comprensione del disturbo da alimentazione incontrollata (BED) e dei disturbi alimentari a questo correlati, il BETQ esplora varie dimensioni come gli stati emotivi, i contesti situazionali e le dinamiche interpersonali che possono scatenare un’abbuffata.

Prendendo in considerazione fattori come lo stress, la noia, le pressioni sociali e l’immagine negativa di sé, il questionario aiuta i medici e i ricercatori a personalizzare gli interventi e le strategie di trattamento in modo più efficace.

Somministrato in formato self-report, il BETQ è composto da item che gli intervistati valutano in base alle loro esperienze legate alle abbuffate. Le risposte forniscono indicazioni sulla complessa interazione tra elementi cognitivi, emotivi e ambientali che contribuiscono alla perdita di controllo.

Questo approccio mirato facilita lo sviluppo di piani terapeutici personalizzati, tra cui la terapia cognitivo-comportamentale (CBT), la terapia dialettica del comportamento (DBT) e gli interventi basati sulla mindfulness, che mirano ad affrontare le cause profonde delle abbuffate piuttosto che i loro semplici sintomi.

Il BETQ rappresenta uno strumento prezioso nell’arsenale contro i disturbi alimentari, in quanto è forse l’unico strumento esistente che i pazienti possono usare in autonomia per comprendere le ragioni dell’overeating/emotional eating.

La versione da noi elaborata nel corso degli anni (stampabile dal nostro sito) è stata messa a punto grazie ai suggerimenti di tanti pazienti che abbiamo trattato e che hanno suggerito aggiunte e modifiche alla versione originale. Grazie al loro aiuto il numero delle domande è quasi raddoppiato ma ciò ha reso lo strumento più sensibile e pertanto più valido.

I nostri pazienti suggeriscono di utilizzare il BETQ subito prima di cedere alla tentazione dell’abbuffata in quanto questo è il momento migliore per riuscire a mettere a fuoco lo stato d’animo sottostante; compilare il test a posteriori, come si consiglia di solito, dà origine a risultati meno precisi.

Se per voi l’alimentazione emozionale rappresenta un problema, anche al di fuori da un BED, sicuramente il BETQ può aiutarvi a far luce su quali sono i fattori scatenanti la perdita di controllo e permettervi una visione più ampia delle vostre parti oscure. Provate a utilizzarlo!

La sindrome da rialimentazione

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La sindrome da rialimentazione (refeeding syndrome per gli autori anglosassoni) rappresenta la complicazione più grave – talvolta mortale – che può verificarsi durante la rialimentazione di pazienti gravemente malnutriti (o che digiunano da almeno 7-10 giorni) e il cui metabolismo si è ormai adattato all’utilizzo degli acidi grassi e dei corpi chetonici per la produzione di energia.

Questo problema riguarda molti tipi di malattie – tra le quali anche l’Anoressia Nervosa (AN) – allorchè i pazienti vengono ricoverati in ospedale in stato di grave sottopeso e sottoposti ad un programma di nutrizione intensiva troppo aggressivo. Il disturbo insorge solitamente entro i primi due o tre giorni della rialimentazione e consegue a una serie di anomalie metaboliche che derivano dalle alterazioni idro-elettrolitiche scatenate dall’aumento di nutrienti assorbiti dalle cellule del paziente (grazie alla rinnovata stimolazione insulinica) le quali richiamano al loro interno una serie di minerali sottraendoli al circolo sanguigno.

Queste alterazioni, che coinvolgono i livelli sierici di fosfati, magnesio e potassio, scatenano anomalie a livello neurologico, cardiovascolare, polmonare, neuromuscolare ed ematologico talmente gravi che, se non viene riconosciuta e adeguatamente trattata nel più breve tempo possibile, la sindrome da rialimentazione può portare alla morte del paziente.

La terapia è innanzitutto preventiva, e consiste nell’aumentare progressivamente il carico calorico e nutrizionale nel corso della rialimentazione, misurando continuamente i livelli plasmatici di glicemia, trigliceridi, elettroliti e bicarbonati e supplementando il paziente con complessi vitaminici e minerali. A partire dal settimo giorno di rialimentazione il rischio di sviluppare una sindrome da rialimentazione si abbassa repentinamente fino ad azzerarsi.

Questo è il motivo per cui, quando una paziente con grave stato di denutrizione viene ricoverata in ospedale, nel corso delle prime settimane di degenza viene solitamente accolta in un reparto di medicina o di nutrizione clinica anzichè in psichiatria. E questo è anche il motivo per cui, quando è presente una grave malnutrizione la rialimentazione andrebbe sempre condotta in ambiente ospedaliero.

Social media e contagio psicosomatico

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Il ruolo dei social media come incubatore di psicopatologia della personalità e del comportamento, in particolare nel contesto dei disturbi alimentari, consiste in una complessa interazione tra autenticità dei sintomi e contagio sociale di tipo psicosomatico. Queste piattaforme agiscono spesso come strumenti a doppio taglio, offrendo da un lato reti di supporto e perpetuando al contempo comportamenti e ideali dannosi.

Certo, i social media possono fornire un sostegno e una convalida alle persone che lottano contro i disturbi alimentari. Le piattaforme possono offrire comunità in cui gli individui condividono esperienze, strategie di coping e storie di guarigione. Grazie a questo aspetto che si basa sull’autenticità dei sintomi e dei disturbi, i pazienti trovano contenuti utili e si sentono meno isolati nelle loro lotte.

Tuttavia, il lato oscuro dei social media risiede nel loro potenziale ruolo di contagio sociale psicosomatico. La natura pervasiva delle immagini corporee idealizzate e la glorificazione della magrezza possono esacerbare l’insoddisfazione corporea e i comportamenti alimentari disordinati. Gli utenti, soprattutto gli adolescenti e i giovani adulti, sono particolarmente suscettibili a queste influenze a causa della loro fase di sviluppo e dell’elevato coinvolgimento nei social media. L’esposizione costante a tali contenuti (frequentemente falsati) può portare all’interiorizzazione di standard non salutari, innescando o peggiorando i disturbi alimentari.

Molti contenuti presenti su piattaforme come TikTok si presentano come fake dal punto di vista psicopatologico, nel senso che suggeriscono insiemi di segni e sintomi che non corrispondono nella realtà ad alcuna patologia realmente esistente. Il cosiddetto fenomeno del “confrontati-e-disperati”, in cui gli utenti confrontano il proprio corpo e le proprie abitudini alimentari con quelle descritte online, provoca spesso sentimenti di inadeguatezza e un’immagine corporea distorta. Questo confronto può fungere da catalizzatore o intensificare i disturbi  pre-esistenti.

In conclusione, se da un lato i social media possono convalidare e sostenere chi soffre di disturbi alimentari, dall’altro possono favorire e amplificare queste condizioni attraverso il contagio sociale psicosomatico inducendo quadri sintomatici che risultano confusivi anche per i clinici che sono chiamati a valutarli. L’impatto dei social media sui disturbi mentali in genere è un misto del riflesso di testimonianze reali e del contributo allo sviluppo o all’esacerbazione di queste condizioni da parte di contibuti di dubbia veridicità che spesso promuovono immagini e comportamenti imitativi malsani. Purtroppo ad oggi non esistono ancora watch-dogs in grado di prevenire la diffusione di contenuti tossici in rete e gli stessi controllori delle piattaforme incriminate non sembrano prendere sul serio il problema.

Utilità della pet therapy nei DCA

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Nell’intricato percorso di guarigione dai disturbi alimentari, si cercano continuamente approcci innovativi per integrare le terapie tradizionali. Tra questi, la pet therapy, nota anche come terapia assistita dagli animali (TAA), sta emergendo come uno strumento efficace e conveniente.

Questo post esplora come gli interventi assistiti dagli animali stanno aiutando molte persone nella loro battaglia contro i disturbi alimentari.
Uno dei benefici più profondi della pet therapy è l’amore incondizionato e l’accettazione che gli animali forniscono.

Per le persone che lottano contro i disturbi alimentari, spesso alle prese con intensi sensi di colpa, vergogna e bassa autostima, la compagnia non giudicante di un animale può essere incredibilmente lenitiva. Gli animali domestici non si preoccupano del proprio aspetto o delle proprie abitudini alimentari; il loro affetto è incrollabile.

È dimostrato che l’interazione con gli animali domestici riduce i livelli di stress e di ansia. Il semplice atto di accarezzare un cane o un gatto può rilasciare endorfine, creando un senso di calma e benessere. Questo può essere particolarmente benefico nei momenti di forte ansia o angoscia, comuni nel recupero dei disturbi alimentari.

Prendersi cura di un animale domestico richiede una routine e un senso di responsabilità che possono essere terapeutici per le persone in fase di recupero. Nutrire, curare e far fare esercizio a un animale domestico può aiutare a dare una struttura alla giornata, un aspetto cruciale per riacquistare il controllo sulle abitudini alimentari e sulle scelte di vita.

Sebbene la pet therapy non sia un trattamento validato specificamente per i disturbi alimentari, è un approccio complementare che può migliorare significativamente il percorso di recupero. Il legame tra uomini e animali è speciale e, nel contesto dei disturbi alimentari, può essere una fonte di conforto, motivazione e speranza.

L’Italia è attualmente l’unico paese Europeo ad aver implementato una regolamentazione delle terapie assistite con gli animali e dispone già da diversi anni di un registro nazionale degli operatori certificati e autorizzati all’utilizzo di terapie assistite dagli animali. Queste terapie possono essere condotte con diversi tipi di animali: dai cani, ai cavalli, agli asini e talora anche con gatti o conigli domestici. Un intervento assistito può essere richiesto sia dal paziente (o dai suoi familiari), come pure dal medico o dallo psicologo di riferimento.

Mentre continuiamo a esplorare e comprendere la natura multiforme dei disturbi alimentari, è importante ricordare che l’inclusione della pet therapy in un progetto terapeutico può offrire un addendum gentile – ma potente – nel percorso verso la guarigione e il benessere.

Anoressia: l’impatto della mindfulness

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La meditazione mindfulness è già da tempo un metodo riconosciuto a livello mondiale per affrontare l’Anoressia Nervosa. La sua efficacia nel trattamento clinico della cachessia neurogena (gli stati più gravi di dimagrimento presenti in alcune pazienti affette da AN), tuttavia, non mai era stata studiata fino ad oggi.

Uno studio condotto presso la Kyoto University’s Graduate School of Medicine ha dimostrato che la meditazione mindfulness riduce effettivamente l’ansia associata al peso. I risultati ottenuti mostrano infatti cambiamenti nell’attività delle regioni cerebrali coinvolte nell’ansia. Il programma di meditazione mindfulness proposto nel corso dello studio ha visto una diminuzione significativa dei pensieri ossessivi sull’immagine di sé dei soggetti del test e dell’attività cerebrale associata alle emozioni correlate.

Mindfulness e meditazione vanno di pari passo. La prima insegna ai praticanti ad affinare la consapevolezza dell’esperienza presente e la capacità di non giudicare e accettare le circostanze. La seconda è il mezzo con cui ci si può avvicinare alla mindfulness. “Ci siamo concentrati sulla possibilità che i pazienti con AN cerchino di evitare l’ansia paralizzante per l’aumento di peso e l’immagine di sé limitando il cibo o vomitando”, aggiunge il coautore Masanori Isobe.

Un programma di intervento mindfulness di 4 settimane ha esaminato i cambiamenti neurali utilizzando compiti progettati per indurre l’ansia legata al peso in 22 pazienti. I ricercatori hanno poi regolato l’ansia aiutando i pazienti ad accettare le situazioni e le esperienze attuali al loro valore nominale, invece di evitarle.

I ricercatori hanno utilizzato la risonanza magnetica funzionale (o fMRI) per analizzare la regolazione dell’attenzione in relazione ai disturbi alimentari. I risultati dello studio hanno confermato le impressioni dei ricercatori, nonostante diversi eventi, come la pandemia di Covid-19 e la guerra russo-ucraina, siano stati evidenziati come fattori significativi di aggravamento per le ansie dei pazienti.