La chirurgia bariatrica

La chirurgia bariatrica rappresenta una delle soluzioni più efficaci per il trattamento dell’obesità patologica che non risponde ai trattamenti tradizionali. Promette benefici significativi sulla perdita di peso e sulla riduzione delle comorbidità quali diabete, ipertensione e apnea notturna. Tuttavia, si tratta di un intervento chirurgico complesso che comporta diversi rischi e non è adatto a tutti i pazienti.

La corretta selezione dei candidati è un elemento chiave per il successo della procedura e per la prevenzione di complicanze a lungo termine. In questo articolo analizzeremo i rischi associati alla terapia bariatrica, le sfide nella scelta dei pazienti e le possibili complicazioni post-operatorie.

Non tutti i pazienti obesi sono idonei per la chirurgia bariatrica. La selezione viene effettuata in base a criteri ben definiti, come:

  • Indice di Massa Corporea (BMI): Generalmente, la chirurgia è raccomandata per pazienti con un IMC superiore a 40 o superiore a 35 se accompagnato da gravi patologie correlate all’obesità.
  • Condizioni di salute preesistenti: Alcune malattie croniche possono rendere l’intervento più rischioso o meno efficace. Ad esempio, pazienti con disturbi cardiaci severi, insufficienza renale o problemi epatici avanzati potrebbero non essere buoni candidati.
  • Stabilità psicologica: L’obesità spesso è legata a disturbi dell’alimentazione o problemi psicologici. I pazienti con depressione grave, disturbi d’ansia non trattati o disturbi alimentari attivi potrebbero non essere idonei, a meno che non vengano supportati con un adeguato percorso psicologico pre-operatorio.
  • Capacità di seguire le linee guida post-operatorie: La chirurgia bariatrica richiede un impegno a lungo termine per adottare nuove abitudini alimentari e uno stile di vita più sano. Pazienti che non sono disposti o in grado di seguire queste indicazioni rischiano di non ottenere risultati soddisfacenti o di sviluppare complicanze.

Uno dei problemi più comuni nella selezione dei pazienti consiste nel sottovalutare gli aspetti psicologici ed emotivi. Alcuni pazienti vedono la chirurgia come una soluzione “magica” alla loro condizione senza comprendere che richiede un cambiamento radicale nel rapporto con il cibo e con il proprio corpo. Questo può portare a risultati deludenti o addirittura a problemi più gravi nel lungo periodo.

Fatte salve le eventuali complicanze chirurgiche immediate, anche quando l’intervento è tecnicamente riuscito, i pazienti possono dover affrontare problemi quali:

  • Deficienze nutrizionali, in quanto il ridotto assorbimento di nutrienti può portare a carenze di ferro, calcio, vitamina B12 e altri elementi essenziali
  • Dumping syndrome, derivante dal fatto che in certi casi il cibo passa troppo velocemente dallo stomaco all’intestino, causando sintomi come nausea e debolezza
  • Reflusso gastroesofageo, causato dall’alterazione del transito alimentare che porta alcuni pazienti a sviluppare un aumento del reflusso acido
  • Disbiosi intestinali, causate dalla profonda alterazione del transito degli alimenti nel tubo gastrointestinale che si verifica in alcuni interventi

E infine, la drastica perdita di peso può avere un impatto significativo sulla salute mentale consistenti in depressione e ansia, derivante dal fatto che alcuni pazienti si trovano a lottare con emozioni negative, specialmente se la perdita di peso non porta il miglioramento emotivo sperato. O ancora, nello sviluppo di disturbi dell’alimentazione anche in pazienti che ne erano privi, in quanto il cambiamento nelle abitudini alimentari può portare a comportamenti alimentari disfunzionali.

Quindi, la chirurgia bariatrica può offrire benefici significativi, ma non è una scelta da prendere alla leggera. La corretta selezione del paziente è fondamentale per minimizzare i rischi e garantire il successo dell’intervento. È essenziale che chiunque stia considerando questa opzione si informi adeguatamente, discuta con il proprio medico e sia consapevole delle sfide fisiche e psicologiche che dovrà affrontare.

 

DCA e disturbi della personalità.

Image ©: Geralt

Esiste un legame complesso tra i disturbi alimentari (DCA) e i disturbi della personalità. Un legame che spesso viene sottovalutato anche da clinici esperti e che è responsabile di molti insuccessi terapeutici.

I disturbi alimentari non sono solo una questione di dieta, peso o immagine corporea. Dietro questi comportamenti si celano spesso dinamiche psicologiche profonde, tra cui veri e propri disturbi della personalità. Ma in che modo questi due mondi si intrecciano?

Chi soffre di un disturbo della personalità tende ad avere un’immagine di sé instabile, difficoltà nelle relazioni e modalità di pensiero disfunzionali. Questi stessi aspetti emergono anche nei disturbi alimentari, rendendo il legame tra le due problematiche particolarmente forte. Alcuni studi dimostrano che fino al 50% delle persone con anoressia, bulimia o disturbo da alimentazione incontrollata (binge eating disorder) presenta anche un disturbo di personalità. Ma quali sono le correlazioni più comuni? Vediamole in ordine di frequenza esaminando per ciascuna i possibili punti di contatto con i DCA.

Disturbo Borderline di Personalità (DBP): l’impulsività, l’instabilità emotiva e il senso cronico di vuoto possono manifestarsi con abbuffate seguite da condotte compensatorie (vomito, digiuno o eccessivo esercizio fisico). Chi soffre di DBP spesso usa il cibo come mezzo per regolare le proprie emozioni.

Disturbo Ossessivo-Compulsivo di Personalità (DOC): il perfezionismo rigido e il bisogno di controllo possono portare a diete estreme e schemi alimentari rigidissimi, favorendo disturbi come l’anoressia nervosa restrittiva.

Disturbo Narcisistico di Personalità (DNP): l’ossessione per l’immagine e il desiderio di approvazione possono alimentare comportamenti alimentari disfunzionali, come restrizioni severe o episodi di abbuffate segrete per mantenere un’immagine “perfetta” agli occhi degli altri.

Disturbo Evitante di Personalità (DEP): il forte senso di inadeguatezza e la paura del giudizio possono portare a relazioni problematiche con il cibo, tra isolamento sociale e abbuffate solitarie.

Questa comorbidità che esiste tra DCA e disturbi della personalità ha profonde implicazioni anche sulla terapia. Molti trattamenti per i disturbi alimentari si concentrano sulla dieta e sulle abitudini alimentari, trascurando le radici psicologiche profonde del problema. Affrontare anche i tratti di personalità disfunzionali può rendere il trattamento più efficace e prevenire le ricadute.

Questo è il motivo per cui vi sono alcune terapie che dovrebbero sempre essere incluse nel piano di trattamento dei pazienti che soffrono di disturbi alimentari associati a disturbi della personalità. Tra questi ne citiamo in particolare quattro. Innanzitutto la Terapia Dialettico-Comportamentale (DBT) e la Terapia Cognitivo-Comportamentale (CBT) che rappresentano strumenti preziosi per i pazienti che presentano tratti borderline o impulsivi. Poi vi è la Terapia Schema-Focused che aiuta chi lotta con perfezionismo e rigidità eccessiva. E infine le terapie basate sulla regolazione emotiva che sono fondamentali per chi usa il cibo come valvola di sfogo emotivo.

Capire il legame tra disturbi della personalità e disturbi alimentari significa smettere di vedere il cibo come il vero problema e iniziare a lavorare sulla mente e sulle emozioni. Il primo passo? Un approccio terapeutico che guardi alla persona nella sua interezza.

Se questo argomento ti interessa, condividi il post e aiutaci a sensibilizzare su questa connessione ancora troppo poco considerata!

Ridefinire l’obesità

Image ©: The Lancet

Per molti anni si è ritenuto che il modo migliore per diagnosticare l’obesità fosse la misura del BMI (Indice di Massa Corporea), in quanto considerato un metodo  semplice ed economico. Si tratta di una misura sulla quale siamo sempre stati abbastanza critici, per lo meno per quanto riguarda le obesità di grado lieve o medio (quelle che nel nostro paese rappresentano la quota più diffusa negli individui affetti da questa problematica).

Abbiamo più volte sostenuto che la semplice misura del BMI non permette di valutare adeguatamente lo stato di salute di una persona e che pertanto il fatto di basarsi soltanto su questo dato poteva portare a errori diagnostici, sia di sottostima che di sovrastima della gravità del problema.Si pensi a individui dotati di elevate masse magre che possono falsare in eccesso la misura del BMI. O, viceversa, a individui che hanno un BMI relativamente basso ma che presentano una quota elevata di grasso viscerale.

Oggi, finalmente, qualcuno ci dà ragione. In un articolo uscito questo mese, la commissione per lo studio dell’Endocrinologia e del Diabete della rivista The Lancet ha proposto che, al di là della misura del BMI, la diagnosi di obesità debba essere confermata dalla contemporanea misurazione della circonferenza vita, o dal rapporto vita/fianchi, o vita/altezza. In alternativa si consiglial’esecuzione di una DEXA al fine di avere una misurazione più attendibile del livello di grasso corporeo.

In questo modo, finalmente, si è deciso che la diagnosui deve basarsi sulla quantità di grasso effettivamente presente nel corpo dell’individuo (in particolare a livello viscerale) anzichè su una generica misurazione della massa corporea. La commissione ha inoltre suggerito due nuove categorie di obesità, basate su misure oggettive di malattia ottenute mediante questi metodi.

La prima categoria è chiamata “obesità clinica”, per le persone che hanno già una malattia cronica associata all’obesità. E la seconda categoria è chiamata “obesità preclinica” e significherebbe che una persona ha rischi elevati di sviluppare una condizione di salute a causa del suo livello di grasso corporeo. Due modifiche che faranno la differenza soprattutto in termini di prevenzione delle complcanze.

A proposito di pregorexia

Image ©: Zeshdo

La pregorexia, termine che deriva dalla fusione delle parole anglosassoni “pregnancy” (gravidanza) e “anorexia” (anoressia), è un disturbo alimentare che colpisce alcune donne durante la gravidanza. Questo fenomeno, seppur poco comune, sta attirando la nostra attenzione per le gravi implicazioni che comporta sia per la madre che per il bambino, dato che ne abbiamo seguiti alcuni casi nel corso dell’ anno.

In pratica, la pregorexia si manifesta con una preoccupazione ossessiva per il peso e la forma del corpo durante la gravidanza. Le donne che ne soffrono tendono a limitare drasticamente l’assunzione di cibo, a esercitarsi in modo eccessivo, e a evitare di aumentare di peso in modo appropriato. Tutto ciò avviene nonostante la gravidanza richieda un aumento di peso controllato per garantire lo sviluppo del feto e il benessere della madre.

Le cause della pregorexia sono multifattoriali. Alcune donne possono sviluppare questo disturbo a causa di pressioni sociali e culturali che enfatizzano l’importanza della magrezza anche durante la gravidanza. I social media, in particolare, giocano un ruolo significativo, mostrando immagini di celebrità e influencer che sembrano mantenere corpi magri durante e dopo la gravidanza. Una storia pregressa di disturbi alimentari non risolti può aumentare anch’essa il rischio di sviluppare la pregorexia.

Le conseguenze per la salute sono potenzialmente devastanti. Per la madre, il rischio include malnutrizione, debolezza muscolare, perdita di densità ossea e complicazioni durante il parto. Per il feto, invece, possono verificarsi problemi di crescita, basso peso alla nascita, parto prematuro e problemi cognitivi o di sviluppo a lungo termine.

Riconoscere e affrontare la pregorexia è fondamentale. I medici, le ostetriche e i professionisti della salute mentale devono prestare attenzione ai segnali di questo disturbo, che possono includere un’insufficiente crescita del peso durante la gravidanza, commenti ossessivi sul proprio corpo o comportamenti alimentari restrittivi.

Il trattamento della pregorexia richiede, come per gli altri DCA, un approccio multidisciplinare che dovrebbe includere consulenze nutrizionali, supporto psicologico e terapia cognitivo-comportamentale. Non si tratta però di un percorso facile che dovrà necessariamente essere esteso anche al post-partum e ai primi anni di vita del neonato.

La gravidanza è un periodo unico nella vita di una donna, durante il quale il corpo si adatta per creare una nuova vita. È fondamentale ricordare che prendersi cura del proprio corpo in questo periodo non significa solo nutrire se stessi, ma anche il proprio bambino. La salute e il benessere devono essere sempre la priorità, superando l’ossessione per standard estetici irrealistici. Passate parola!

Influenze pericolose

Image ©: Geralt

L’ascesa degli influencers sui social media ha profondamente trasformato il modo in cui percepiamo bellezza, successo e stili di vita. Tuttavia, questa influenza può avere effetti negativi, specialmente sui più giovani, contribuendo all’insorgere o al peggioramento di molti disturbi psichici, tra cui anche i disturbi del comportamento alimentare (DCA).

Molti influencer promuovono ideali di bellezza irrealistici, spesso costruiti attraverso immagini filtrate, ritoccate e lontane dalla realtà. Questa costante esposizione a corpi perfetti e vite apparentemente impeccabili alimenta insicurezze, insoddisfazione corporea e bassa autostima. Altri invece descrivono in dettaglio il proprio disagio psichico scatenando meccanismi imitativi tra gli utenti più fragili.  Numerosi studi dimostrano che tali dinamiche possono incrementare il rischio di sviluppare DCA come anoressia, bulimia e binge eating.

Un problema frequente è la diffusione di diete estreme e consigli alimentari non qualificati. Influencer senza competenze specifiche promuovono restrizioni caloriche, digiuni o prodotti dimagranti, presentandoli come soluzioni rapide per ottenere il corpo ideale. Questi contenuti possono indurre comportamenti alimentari pericolosi, in particolare tra gli adolescenti, che sono più vulnerabili alla pressione sociale.

Anche chi opera nel settore del fitness o del benessere, pur senza intenzioni dannose, può contribuire al problema. L’eccessiva enfasi sul “corpo perfetto” come sinonimo di successo e felicità rinforza l’idea che il valore personale dipenda dall’aspetto fisico. Questo messaggio, ripetuto incessantemente, può avere conseguenze devastanti sulla salute mentale dei followers.

Tuttavia, non tutti gli influencers hanno un impatto negativo. Alcuni utilizzano le loro piattaforme per sensibilizzare sui DCA, promuovere l’accettazione del proprio corpo e condividere esperienze personali di guarigione. Questi creators, consapevoli della loro influenza, possono aiutare a contrastare i messaggi tossici e a diffondere contenuti che promuovono benessere e autostima.

Per affrontare il problema, è necessario un intervento collettivo. I social media dovrebbero rafforzare i regolamenti contro contenuti che promuovono ideali irrealistici o comportamenti pericolosi. Gli influencers a loro volta dovrebbero assumersi la responsabilità del loro impatto, collaborando con esperti per diffondere messaggi informati e positivi. Allo stesso tempo, genitori, educatori e professionisti della salute mentale devono educare i giovani a sviluppare un pensiero critico e un rapporto sano con il proprio corpo.

I social media possono essere uno strumento potente, ma è fondamentale che vengano utilizzati con consapevolezza per creare un ambiente che ispiri crescita, equilibrio e inclusività, anzichè disagio.

Curare la bulimia con le App?

Image ©: Almaviva

Negli ultimi anni, il panorama della salute mentale ha visto una crescente integrazione della tecnologia digitale, in particolare attraverso lo sviluppo di applicazioni dedicate alla gestione di disturbi alimentari come la bulimia nervosa. Queste app rappresentano strumenti innovativi che possono supportare sia i pazienti sia i professionisti sanitari nel percorso di cura. Tuttavia, è fondamentale analizzare con spirito critico i vantaggi e i limiti di tali soluzioni per comprendere il loro reale impatto terapeutico.

Le app per la terapia della bulimia offrono una vasta gamma di funzionalità, tra cui il monitoraggio dei pasti, il tracciamento delle emozioni e dei pensieri, esercizi di mindfulness e tecniche di gestione dello stress. Alcune applicazioni includono anche programmi di terapia cognitivo-comportamentale (CBT), considerata il trattamento d’elezione per la bulimia. Attraverso esercizi guidati e strumenti interattivi, le app possono aiutare i pazienti a identificare i trigger emotivi che portano agli episodi di abbuffate e purghe, promuovendo strategie per affrontarli in modo più sano.

Un vantaggio significativo di queste app è la loro accessibilità. La possibilità di accedere a risorse terapeutiche in qualsiasi momento e luogo offre un supporto costante, che può essere particolarmente utile nei momenti critici. Inoltre, molte app sono progettate per essere utilizzate in collaborazione con un terapeuta, migliorando la comunicazione e il monitoraggio dei progressi. Questo approccio integrato consente una personalizzazione del trattamento, adattandolo alle esigenze specifiche di ogni individuo.

Tuttavia, ci sono anche limiti e sfide da considerare. Una delle principali criticità riguarda la validità scientifica delle app disponibili. Non tutte le applicazioni sono basate su evidenze cliniche solide, e l’assenza di regolamentazione nel settore può portare alla diffusione di strumenti inefficaci o potenzialmente dannosi. Pertanto, è essenziale che i pazienti scelgano app sviluppate in collaborazione con esperti del settore e validate da studi scientifici.

Un’altra questione importante è la privacy dei dati. Le app per la terapia della bulimia raccolgono spesso informazioni sensibili sui comportamenti alimentari e sullo stato emotivo degli utenti. Garantire la sicurezza e la riservatezza di questi dati è fondamentale per proteggere la privacy degli utenti e prevenire possibili abusi.

Inoltre, nonostante i loro benefici, le app non possono sostituire il ruolo di un professionista qualificato. La bulimia nervosa è un disturbo complesso che richiede un approccio multidisciplinare, includendo terapia psicologica, supporto nutrizionale e, in alcuni casi, trattamento farmacologico. Le app possono essere uno strumento complementare, ma non dovrebbero mai rappresentare l’unica forma di trattamento.

Un ulteriore limite riguarda l’adesione e l’efficacia a lungo termine. Molti utenti tendono a utilizzare le app solo per brevi periodi, interrompendo il percorso prima di ottenere benefici significativi. Ciò evidenzia la necessità di progettare applicazioni che incentivino l’engagement e la motivazione degli utenti nel lungo periodo.

In conclusione, le app per la terapia della bulimia rappresentano una promettente innovazione nel campo della salute mentale, offrendo supporto e risorse accessibili a chi ne ha bisogno. Tuttavia, è essenziale utilizzarle con consapevolezza, integrandole in un piano terapeutico strutturato e monitorato da professionisti. Solo attraverso un approccio equilibrato e informato è possibile sfruttare al meglio il potenziale di queste tecnologie per migliorare la qualità di vita delle persone affette da bulimia nervosa.

 

A proposito di farmaci miracolosi e obesità

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Negli ultimi anni, il trattamento farmacologico dell’obesità ha registrato notevoli progressi grazie all’introduzione di nuovi farmaci in grado di favorire una perdita di peso significativa. Questi medicinali rappresentano una risorsa importante per coloro che faticano a ottenere risultati duraturi attraverso interventi sullo stile di vita, come dieta e attività fisica. Tuttavia, l’uso dei farmaci per l’obesità solleva interrogativi critici che meritano una riflessione approfondita.

Tra i farmaci attualmente approvati, quelli a base di agonisti del GLP-1, come semaglutide e liraglutide, hanno dimostrato di essere particolarmente efficaci nel ridurre il peso corporeo, migliorando anche parametri metabolici come il controllo glicemico. Questi farmaci, inizialmente sviluppati per il trattamento del diabete di tipo 2, agiscono riducendo l’appetito e promuovendo un senso di sazietà prolungato. Tuttavia, il loro utilizzo esteso ha evidenziato alcuni aspetti problematici, tra cui costi elevati, effetti collaterali e la necessità di un trattamento continuativo per mantenere i risultati.

Un problema rilevante riguarda anche la selezione dei pazienti. I farmaci per l’obesità sono generalmente indicati per persone con un indice di massa corporea (BMI) superiore a 30, o superiore a 27 quando sono presenti comorbilità come diabete o ipertensione. Tuttavia, la definizione di questi criteri è oggetto di dibattito. Alcuni esperti sostengono che tali soglie possano portare a una medicalizzazione eccessiva del sovrappeso, mentre altri ritengono che l’accesso ai farmaci debba essere ampliato per prevenire le complicanze legate all’obesità.

Secondo noi, c’è il rischio che i farmaci vengano percepiti come una soluzione rapida e facile, scoraggiando i pazienti dall’adottare cambiamenti sostenibili nello stile di vita. Questo è un punto critico, poiché i farmaci non possono sostituire l’importanza di un’alimentazione equilibrata e di un regolare esercizio fisico. Al contrario, dovrebbero essere considerati un supporto aggiuntivo, da integrare in un programma terapeutico più ampio e personalizzato.

Un altro aspetto controverso riguarda il monitoraggio a lungo termine degli effetti di questi farmaci. Sebbene gli studi clinici abbiano dimostrato la loro sicurezza ed efficacia a breve e medio termine, mancano dati sufficienti sull’uso prolungato. Ciò solleva interrogativi sulle possibili conseguenze per la salute, specialmente considerando che l’obesità è una condizione cronica che spesso richiede interventi continuativi.

Sul piano economico, il costo elevato dei farmaci per l’obesità rappresenta una barriera significativa, limitandone l’accessibilità per molte persone. In alcuni paesi, questi medicinali non sono coperti dai sistemi sanitari pubblici, rendendo il trattamento inaccessibile per chi non può permetterselo. Questo pone una questione etica riguardo all’equità nell’accesso alle cure e alla prevenzione delle malattie legate all’obesità.

Infine, è fondamentale considerare l’impatto psicologico dell’uso dei farmaci per l’obesità. Alcuni pazienti possono sviluppare una dipendenza psicologica da questi trattamenti, temendo di riprendere peso una volta interrotti. Questo sottolinea l’importanza di un supporto psicologico integrato nel percorso terapeutico.

Sicuramente i farmaci per l’obesità rappresentano un importante passo avanti nella gestione di una condizione complessa e multifattoriale, tuttavia, la loro prescrizione dovrebbe essere attentamente valutata, tenendo conto dei benefici, dei rischi e delle implicazioni economiche e psicologiche. Un approccio equilibrato e personalizzato, che combini farmacologia, modifiche dello stile di vita e supporto multidisciplinare, è essenziale per garantire risultati sostenibili e migliorare la qualità di vita dei pazienti.

 

L’albero è la mia ancora

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The Tree Is My Anchor è il titolo di un articolo scientifico apparso qualche anno fa sull’International Journal of Environmental and Public Health a firma di un gruppo di ricercatori danesi. Di che cosa parla? Di un innovativo modello di trattamento del BED mediante la cosiddetta Forest Therapy.

Con questo termine, coniato in Giappone col nome di Shinrin Yoku intorno agli anni Duemila, si definiscono una serie di tecniche che hanno come fattore comune l’esposizione dei pazienti a una serie di attività che vengono condotte durante un’immersione consapevole in una foresta certificata come terapeutica, i cui alberi rilasciano composti volatili (in partica olii essenziali) che sono in grado di interagire con l’organismo umano a livello neuro-psico-endocrino-immunologico. Si tratta di una tecnica terapeutica ancora poco utilizzata in Italia, ma alla quale noi stessi ci siamo formati.

I risultati dello studio, originariamente eseguito su venti pazienti affetti da Disturbo da Alimentazione Incontrollata (BED), forniscono un primo supporto alla fattibilità dell’implementazione della Forest Therapy nel trattamento del BED. Una delle potenzialità di questo approccio terapeutico sembra essere quella di aiutare a concretizzare e “ancorare” il contenuto terapeutico attraverso esperienze fisiche ed esercizi, rendendolo così più accessibile e applicabile per i partecipanti.

Tuttavia, i risultati devono essere testati su un campione randomizzato più ampio. A nostro parere sarebbe utile associare futuri studi anche a programmi che includano una dieta consumata direttamente in una foresta terapeutica, o comunque in un ambiente a contatto con la natura.

Se l’argomento vi interessa, vi suggerisco di tenere d’occhio gli studi di questo gruppo di ricerca che sta continuando a indagare gli effetti di questo approccio terapeutico in pazienti affetti da DCA.

Horses & Butterflies

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Gli Interventi Assistiti con gli Animali (IAA) rappresentano un approccio innovativo di supporto alla riabilitazione psichiatrica e ai disturbi del neurosviluppo, potendo potenzialmente incidere su molteplici domini funzionali, che vanno dall’espressione delle emozioni alle abilità motorie.

Coniugando gli effetti benefici della relazione emozionale instaurata con il cavallo con la stimolazione motoria ritmica, nell’ambito del Progetto pilota Horses & Butterflies, è stato sviluppato un protocollo di riabilitazione equestre, basato sul volteggio equestre, per contrastare l’anoressia nervosa, che rappresenta uno tra i più frequenti disturbi del comportamento alimentare dell’età adolescenziale.

Horses&Butterflies è un progetto pilota che si colloca nell’ambito del più ampio Progetto europeo Sphere, realizzata in collaborazione con il Centro per i Disturbi Alimentari di Umbertide (PG), su iniziativa del Comitato Regionale Federazione Italiana Sport Equestri (FISE) Umbria.

Il Progetto Horses&Butterflies ha coinvolto sette ragazze con diagnosi di anoressia nervosa (quattro per il gruppo di controllo e tre per il gruppo che ha praticato il volteggio equestre), arruolate presso il Centro DCA di Umbertide (PG) diretto da Laura Dalla Ragione. Ogni seduta era composta di quattro fasi: approccio al cavallo e pulizia dell’animale (grooming), sensibilizzazione corporea (esercizi di respirazione, orientamento e conduzione a mano del cavallo), lavoro a cavallo e pulizia finale del cavallo.

Tra i risultati ottenuti si è osservato un aumento della massa grassa e una riduzione del peso della massa magra, nonché una migliore gestione dell’ansia e un aumento della socievolezza delle pazienti. Tali risultati, sia pur preliminari, indicano come la pratica del volteggio equestre possa essere utilizzata efficacemente nel caso di disturbi del comportamento alimentare a complemento di una presa in carico globale della persona.

 

Terapia personalizzata dell’obesità

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Facendo seguito al post sui fenotipi dell’obesità, vediamo come utilizzare tale teoria a fini terapeutici.
1. I pazienti con un cervello affamato (che presentano cioè una sazietà anormale), e che necessitano di più calorie a ogni pasto per raggiungere la sazietà, possono trarre il massimo beneficio dalla limitazione della frequenza dei pasti (as es. Digiuno Intermittente) e dalla diminuzione della loro densità energetica per ridurre l’apporto calorico. Una dieta ipocalorica ricca in fibre alimentari alternata a un protocollo di IF è associata a un miglioramento della sensazione di appetito, a una maggiore sazietà e a una compliance più prolungata.
2. I pazienti con un intestino affamato (sazietà normale associata a svuotamento gastrico accelerato), a causa di concentrazioni postprandiali più basse di GLP-1, possono trarre beneficio da una dieta ad alto contenuto proteico con precarichi proteici per migliorare il GLP-1. Le diete ad alto contenuto proteico hanno determinato una perdita di peso e un miglioramento della sazietà anche con un follow-up a lungo termine. Inoltre, è stato dimostrato che i precarichi proteici rallentano lo svuotamento gastrico in partecipanti sani e in pazienti con diabete di tipo 2 con concentrazioni di GLP-1 postprandiali più elevate. Questi sono anche i pazienti nei quali gli analoghi del GLP-1 hanno dimostrato la maggiore efficacia.
3. I pazienti con il fenotipo della fame emotiva possono trarre i maggiori benefici da un intervento psicoterapeutico comportamentale strutturato per la definizione degli obiettivi, l’automonitoraggio e il controllo degli stimoli. Inoltre, è stato dimostrato che gli approcci basati sulla mindfulness riducono l’alimentazione emotiva e aiutano ad aumentare l’autoconsapevolezza.
4. Un basso dispendio energetico facilita l’aumento di peso promuovendo un bilancio energetico positivo. La riduzione del tasso metabolico sarebbe l’aspetto critico da affrontare nei soggetti “a combustione lenta”. È stata riscontrata un’eccellente relazione dose-risposta tra l’allenamento di resistenza e l’ipertrofia muscolare. Inoltre, in questi casi si è visto che diete a basso contenuto di carboidrati e ad alto contenuto proteico hanno migliorato la forza e le dimensioni dei muscoli aumentando il dispendio energetico. Laddove sia presente una malattia metabolica, la terapia di quest‘ultima diviene ovviamente prioritaria.
Questo almeno è cio che si può dire per certo – ad oggi – sulla base dei dati disponibili.