Ridefinire l’obesità

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Per molti anni si è ritenuto che il modo migliore per diagnosticare l’obesità fosse la misura del BMI (Indice di Massa Corporea), in quanto considerato un metodo  semplice ed economico. Si tratta di una misura sulla quale siamo sempre stati abbastanza critici, per lo meno per quanto riguarda le obesità di grado lieve o medio (quelle che nel nostro paese rappresentano la quota più diffusa negli individui affetti da questa problematica).

Abbiamo più volte sostenuto che la semplice misura del BMI non permette di valutare adeguatamente lo stato di salute di una persona e che pertanto il fatto di basarsi soltanto su questo dato poteva portare a errori diagnostici, sia di sottostima che di sovrastima della gravità del problema.Si pensi a individui dotati di elevate masse magre che possono falsare in eccesso la misura del BMI. O, viceversa, a individui che hanno un BMI relativamente basso ma che presentano una quota elevata di grasso viscerale.

Oggi, finalmente, qualcuno ci dà ragione. In un articolo uscito questo mese, la commissione per lo studio dell’Endocrinologia e del Diabete della rivista The Lancet ha proposto che, al di là della misura del BMI, la diagnosi di obesità debba essere confermata dalla contemporanea misurazione della circonferenza vita, o dal rapporto vita/fianchi, o vita/altezza. In alternativa si consiglial’esecuzione di una DEXA al fine di avere una misurazione più attendibile del livello di grasso corporeo.

In questo modo, finalmente, si è deciso che la diagnosui deve basarsi sulla quantità di grasso effettivamente presente nel corpo dell’individuo (in particolare a livello viscerale) anzichè su una generica misurazione della massa corporea. La commissione ha inoltre suggerito due nuove categorie di obesità, basate su misure oggettive di malattia ottenute mediante questi metodi.

La prima categoria è chiamata “obesità clinica”, per le persone che hanno già una malattia cronica associata all’obesità. E la seconda categoria è chiamata “obesità preclinica” e significherebbe che una persona ha rischi elevati di sviluppare una condizione di salute a causa del suo livello di grasso corporeo. Due modifiche che faranno la differenza soprattutto in termini di prevenzione delle complcanze.

A proposito di pregorexia

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La pregorexia, termine che deriva dalla fusione delle parole anglosassoni “pregnancy” (gravidanza) e “anorexia” (anoressia), è un disturbo alimentare che colpisce alcune donne durante la gravidanza. Questo fenomeno, seppur poco comune, sta attirando la nostra attenzione per le gravi implicazioni che comporta sia per la madre che per il bambino, dato che ne abbiamo seguiti alcuni casi nel corso dell’ anno.

In pratica, la pregorexia si manifesta con una preoccupazione ossessiva per il peso e la forma del corpo durante la gravidanza. Le donne che ne soffrono tendono a limitare drasticamente l’assunzione di cibo, a esercitarsi in modo eccessivo, e a evitare di aumentare di peso in modo appropriato. Tutto ciò avviene nonostante la gravidanza richieda un aumento di peso controllato per garantire lo sviluppo del feto e il benessere della madre.

Le cause della pregorexia sono multifattoriali. Alcune donne possono sviluppare questo disturbo a causa di pressioni sociali e culturali che enfatizzano l’importanza della magrezza anche durante la gravidanza. I social media, in particolare, giocano un ruolo significativo, mostrando immagini di celebrità e influencer che sembrano mantenere corpi magri durante e dopo la gravidanza. Una storia pregressa di disturbi alimentari non risolti può aumentare anch’essa il rischio di sviluppare la pregorexia.

Le conseguenze per la salute sono potenzialmente devastanti. Per la madre, il rischio include malnutrizione, debolezza muscolare, perdita di densità ossea e complicazioni durante il parto. Per il feto, invece, possono verificarsi problemi di crescita, basso peso alla nascita, parto prematuro e problemi cognitivi o di sviluppo a lungo termine.

Riconoscere e affrontare la pregorexia è fondamentale. I medici, le ostetriche e i professionisti della salute mentale devono prestare attenzione ai segnali di questo disturbo, che possono includere un’insufficiente crescita del peso durante la gravidanza, commenti ossessivi sul proprio corpo o comportamenti alimentari restrittivi.

Il trattamento della pregorexia richiede, come per gli altri DCA, un approccio multidisciplinare che dovrebbe includere consulenze nutrizionali, supporto psicologico e terapia cognitivo-comportamentale. Non si tratta però di un percorso facile che dovrà necessariamente essere esteso anche al post-partum e ai primi anni di vita del neonato.

La gravidanza è un periodo unico nella vita di una donna, durante il quale il corpo si adatta per creare una nuova vita. È fondamentale ricordare che prendersi cura del proprio corpo in questo periodo non significa solo nutrire se stessi, ma anche il proprio bambino. La salute e il benessere devono essere sempre la priorità, superando l’ossessione per standard estetici irrealistici. Passate parola!

Influenze pericolose

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L’ascesa degli influencers sui social media ha profondamente trasformato il modo in cui percepiamo bellezza, successo e stili di vita. Tuttavia, questa influenza può avere effetti negativi, specialmente sui più giovani, contribuendo all’insorgere o al peggioramento di molti disturbi psichici, tra cui anche i disturbi del comportamento alimentare (DCA).

Molti influencer promuovono ideali di bellezza irrealistici, spesso costruiti attraverso immagini filtrate, ritoccate e lontane dalla realtà. Questa costante esposizione a corpi perfetti e vite apparentemente impeccabili alimenta insicurezze, insoddisfazione corporea e bassa autostima. Altri invece descrivono in dettaglio il proprio disagio psichico scatenando meccanismi imitativi tra gli utenti più fragili.  Numerosi studi dimostrano che tali dinamiche possono incrementare il rischio di sviluppare DCA come anoressia, bulimia e binge eating.

Un problema frequente è la diffusione di diete estreme e consigli alimentari non qualificati. Influencer senza competenze specifiche promuovono restrizioni caloriche, digiuni o prodotti dimagranti, presentandoli come soluzioni rapide per ottenere il corpo ideale. Questi contenuti possono indurre comportamenti alimentari pericolosi, in particolare tra gli adolescenti, che sono più vulnerabili alla pressione sociale.

Anche chi opera nel settore del fitness o del benessere, pur senza intenzioni dannose, può contribuire al problema. L’eccessiva enfasi sul “corpo perfetto” come sinonimo di successo e felicità rinforza l’idea che il valore personale dipenda dall’aspetto fisico. Questo messaggio, ripetuto incessantemente, può avere conseguenze devastanti sulla salute mentale dei followers.

Tuttavia, non tutti gli influencers hanno un impatto negativo. Alcuni utilizzano le loro piattaforme per sensibilizzare sui DCA, promuovere l’accettazione del proprio corpo e condividere esperienze personali di guarigione. Questi creators, consapevoli della loro influenza, possono aiutare a contrastare i messaggi tossici e a diffondere contenuti che promuovono benessere e autostima.

Per affrontare il problema, è necessario un intervento collettivo. I social media dovrebbero rafforzare i regolamenti contro contenuti che promuovono ideali irrealistici o comportamenti pericolosi. Gli influencers a loro volta dovrebbero assumersi la responsabilità del loro impatto, collaborando con esperti per diffondere messaggi informati e positivi. Allo stesso tempo, genitori, educatori e professionisti della salute mentale devono educare i giovani a sviluppare un pensiero critico e un rapporto sano con il proprio corpo.

I social media possono essere uno strumento potente, ma è fondamentale che vengano utilizzati con consapevolezza per creare un ambiente che ispiri crescita, equilibrio e inclusività, anzichè disagio.

Curare la bulimia con le App?

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Negli ultimi anni, il panorama della salute mentale ha visto una crescente integrazione della tecnologia digitale, in particolare attraverso lo sviluppo di applicazioni dedicate alla gestione di disturbi alimentari come la bulimia nervosa. Queste app rappresentano strumenti innovativi che possono supportare sia i pazienti sia i professionisti sanitari nel percorso di cura. Tuttavia, è fondamentale analizzare con spirito critico i vantaggi e i limiti di tali soluzioni per comprendere il loro reale impatto terapeutico.

Le app per la terapia della bulimia offrono una vasta gamma di funzionalità, tra cui il monitoraggio dei pasti, il tracciamento delle emozioni e dei pensieri, esercizi di mindfulness e tecniche di gestione dello stress. Alcune applicazioni includono anche programmi di terapia cognitivo-comportamentale (CBT), considerata il trattamento d’elezione per la bulimia. Attraverso esercizi guidati e strumenti interattivi, le app possono aiutare i pazienti a identificare i trigger emotivi che portano agli episodi di abbuffate e purghe, promuovendo strategie per affrontarli in modo più sano.

Un vantaggio significativo di queste app è la loro accessibilità. La possibilità di accedere a risorse terapeutiche in qualsiasi momento e luogo offre un supporto costante, che può essere particolarmente utile nei momenti critici. Inoltre, molte app sono progettate per essere utilizzate in collaborazione con un terapeuta, migliorando la comunicazione e il monitoraggio dei progressi. Questo approccio integrato consente una personalizzazione del trattamento, adattandolo alle esigenze specifiche di ogni individuo.

Tuttavia, ci sono anche limiti e sfide da considerare. Una delle principali criticità riguarda la validità scientifica delle app disponibili. Non tutte le applicazioni sono basate su evidenze cliniche solide, e l’assenza di regolamentazione nel settore può portare alla diffusione di strumenti inefficaci o potenzialmente dannosi. Pertanto, è essenziale che i pazienti scelgano app sviluppate in collaborazione con esperti del settore e validate da studi scientifici.

Un’altra questione importante è la privacy dei dati. Le app per la terapia della bulimia raccolgono spesso informazioni sensibili sui comportamenti alimentari e sullo stato emotivo degli utenti. Garantire la sicurezza e la riservatezza di questi dati è fondamentale per proteggere la privacy degli utenti e prevenire possibili abusi.

Inoltre, nonostante i loro benefici, le app non possono sostituire il ruolo di un professionista qualificato. La bulimia nervosa è un disturbo complesso che richiede un approccio multidisciplinare, includendo terapia psicologica, supporto nutrizionale e, in alcuni casi, trattamento farmacologico. Le app possono essere uno strumento complementare, ma non dovrebbero mai rappresentare l’unica forma di trattamento.

Un ulteriore limite riguarda l’adesione e l’efficacia a lungo termine. Molti utenti tendono a utilizzare le app solo per brevi periodi, interrompendo il percorso prima di ottenere benefici significativi. Ciò evidenzia la necessità di progettare applicazioni che incentivino l’engagement e la motivazione degli utenti nel lungo periodo.

In conclusione, le app per la terapia della bulimia rappresentano una promettente innovazione nel campo della salute mentale, offrendo supporto e risorse accessibili a chi ne ha bisogno. Tuttavia, è essenziale utilizzarle con consapevolezza, integrandole in un piano terapeutico strutturato e monitorato da professionisti. Solo attraverso un approccio equilibrato e informato è possibile sfruttare al meglio il potenziale di queste tecnologie per migliorare la qualità di vita delle persone affette da bulimia nervosa.

 

A proposito di farmaci miracolosi e obesità

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Negli ultimi anni, il trattamento farmacologico dell’obesità ha registrato notevoli progressi grazie all’introduzione di nuovi farmaci in grado di favorire una perdita di peso significativa. Questi medicinali rappresentano una risorsa importante per coloro che faticano a ottenere risultati duraturi attraverso interventi sullo stile di vita, come dieta e attività fisica. Tuttavia, l’uso dei farmaci per l’obesità solleva interrogativi critici che meritano una riflessione approfondita.

Tra i farmaci attualmente approvati, quelli a base di agonisti del GLP-1, come semaglutide e liraglutide, hanno dimostrato di essere particolarmente efficaci nel ridurre il peso corporeo, migliorando anche parametri metabolici come il controllo glicemico. Questi farmaci, inizialmente sviluppati per il trattamento del diabete di tipo 2, agiscono riducendo l’appetito e promuovendo un senso di sazietà prolungato. Tuttavia, il loro utilizzo esteso ha evidenziato alcuni aspetti problematici, tra cui costi elevati, effetti collaterali e la necessità di un trattamento continuativo per mantenere i risultati.

Un problema rilevante riguarda anche la selezione dei pazienti. I farmaci per l’obesità sono generalmente indicati per persone con un indice di massa corporea (BMI) superiore a 30, o superiore a 27 quando sono presenti comorbilità come diabete o ipertensione. Tuttavia, la definizione di questi criteri è oggetto di dibattito. Alcuni esperti sostengono che tali soglie possano portare a una medicalizzazione eccessiva del sovrappeso, mentre altri ritengono che l’accesso ai farmaci debba essere ampliato per prevenire le complicanze legate all’obesità.

Secondo noi, c’è il rischio che i farmaci vengano percepiti come una soluzione rapida e facile, scoraggiando i pazienti dall’adottare cambiamenti sostenibili nello stile di vita. Questo è un punto critico, poiché i farmaci non possono sostituire l’importanza di un’alimentazione equilibrata e di un regolare esercizio fisico. Al contrario, dovrebbero essere considerati un supporto aggiuntivo, da integrare in un programma terapeutico più ampio e personalizzato.

Un altro aspetto controverso riguarda il monitoraggio a lungo termine degli effetti di questi farmaci. Sebbene gli studi clinici abbiano dimostrato la loro sicurezza ed efficacia a breve e medio termine, mancano dati sufficienti sull’uso prolungato. Ciò solleva interrogativi sulle possibili conseguenze per la salute, specialmente considerando che l’obesità è una condizione cronica che spesso richiede interventi continuativi.

Sul piano economico, il costo elevato dei farmaci per l’obesità rappresenta una barriera significativa, limitandone l’accessibilità per molte persone. In alcuni paesi, questi medicinali non sono coperti dai sistemi sanitari pubblici, rendendo il trattamento inaccessibile per chi non può permetterselo. Questo pone una questione etica riguardo all’equità nell’accesso alle cure e alla prevenzione delle malattie legate all’obesità.

Infine, è fondamentale considerare l’impatto psicologico dell’uso dei farmaci per l’obesità. Alcuni pazienti possono sviluppare una dipendenza psicologica da questi trattamenti, temendo di riprendere peso una volta interrotti. Questo sottolinea l’importanza di un supporto psicologico integrato nel percorso terapeutico.

Sicuramente i farmaci per l’obesità rappresentano un importante passo avanti nella gestione di una condizione complessa e multifattoriale, tuttavia, la loro prescrizione dovrebbe essere attentamente valutata, tenendo conto dei benefici, dei rischi e delle implicazioni economiche e psicologiche. Un approccio equilibrato e personalizzato, che combini farmacologia, modifiche dello stile di vita e supporto multidisciplinare, è essenziale per garantire risultati sostenibili e migliorare la qualità di vita dei pazienti.

 

L’albero è la mia ancora

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The Tree Is My Anchor è il titolo di un articolo scientifico apparso qualche anno fa sull’International Journal of Environmental and Public Health a firma di un gruppo di ricercatori danesi. Di che cosa parla? Di un innovativo modello di trattamento del BED mediante la cosiddetta Forest Therapy.

Con questo termine, coniato in Giappone col nome di Shinrin Yoku intorno agli anni Duemila, si definiscono una serie di tecniche che hanno come fattore comune l’esposizione dei pazienti a una serie di attività che vengono condotte durante un’immersione consapevole in una foresta certificata come terapeutica, i cui alberi rilasciano composti volatili (in partica olii essenziali) che sono in grado di interagire con l’organismo umano a livello neuro-psico-endocrino-immunologico. Si tratta di una tecnica terapeutica ancora poco utilizzata in Italia, ma alla quale noi stessi ci siamo formati.

I risultati dello studio, originariamente eseguito su venti pazienti affetti da Disturbo da Alimentazione Incontrollata (BED), forniscono un primo supporto alla fattibilità dell’implementazione della Forest Therapy nel trattamento del BED. Una delle potenzialità di questo approccio terapeutico sembra essere quella di aiutare a concretizzare e “ancorare” il contenuto terapeutico attraverso esperienze fisiche ed esercizi, rendendolo così più accessibile e applicabile per i partecipanti.

Tuttavia, i risultati devono essere testati su un campione randomizzato più ampio. A nostro parere sarebbe utile associare futuri studi anche a programmi che includano una dieta consumata direttamente in una foresta terapeutica, o comunque in un ambiente a contatto con la natura.

Se l’argomento vi interessa, vi suggerisco di tenere d’occhio gli studi di questo gruppo di ricerca che sta continuando a indagare gli effetti di questo approccio terapeutico in pazienti affetti da DCA.

Horses & Butterflies

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Gli Interventi Assistiti con gli Animali (IAA) rappresentano un approccio innovativo di supporto alla riabilitazione psichiatrica e ai disturbi del neurosviluppo, potendo potenzialmente incidere su molteplici domini funzionali, che vanno dall’espressione delle emozioni alle abilità motorie.

Coniugando gli effetti benefici della relazione emozionale instaurata con il cavallo con la stimolazione motoria ritmica, nell’ambito del Progetto pilota Horses & Butterflies, è stato sviluppato un protocollo di riabilitazione equestre, basato sul volteggio equestre, per contrastare l’anoressia nervosa, che rappresenta uno tra i più frequenti disturbi del comportamento alimentare dell’età adolescenziale.

Horses&Butterflies è un progetto pilota che si colloca nell’ambito del più ampio Progetto europeo Sphere, realizzata in collaborazione con il Centro per i Disturbi Alimentari di Umbertide (PG), su iniziativa del Comitato Regionale Federazione Italiana Sport Equestri (FISE) Umbria.

Il Progetto Horses&Butterflies ha coinvolto sette ragazze con diagnosi di anoressia nervosa (quattro per il gruppo di controllo e tre per il gruppo che ha praticato il volteggio equestre), arruolate presso il Centro DCA di Umbertide (PG) diretto da Laura Dalla Ragione. Ogni seduta era composta di quattro fasi: approccio al cavallo e pulizia dell’animale (grooming), sensibilizzazione corporea (esercizi di respirazione, orientamento e conduzione a mano del cavallo), lavoro a cavallo e pulizia finale del cavallo.

Tra i risultati ottenuti si è osservato un aumento della massa grassa e una riduzione del peso della massa magra, nonché una migliore gestione dell’ansia e un aumento della socievolezza delle pazienti. Tali risultati, sia pur preliminari, indicano come la pratica del volteggio equestre possa essere utilizzata efficacemente nel caso di disturbi del comportamento alimentare a complemento di una presa in carico globale della persona.

 

Terapia personalizzata dell’obesità

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Facendo seguito al post sui fenotipi dell’obesità, vediamo come utilizzare tale teoria a fini terapeutici.
1. I pazienti con un cervello affamato (che presentano cioè una sazietà anormale), e che necessitano di più calorie a ogni pasto per raggiungere la sazietà, possono trarre il massimo beneficio dalla limitazione della frequenza dei pasti (as es. Digiuno Intermittente) e dalla diminuzione della loro densità energetica per ridurre l’apporto calorico. Una dieta ipocalorica ricca in fibre alimentari alternata a un protocollo di IF è associata a un miglioramento della sensazione di appetito, a una maggiore sazietà e a una compliance più prolungata.
2. I pazienti con un intestino affamato (sazietà normale associata a svuotamento gastrico accelerato), a causa di concentrazioni postprandiali più basse di GLP-1, possono trarre beneficio da una dieta ad alto contenuto proteico con precarichi proteici per migliorare il GLP-1. Le diete ad alto contenuto proteico hanno determinato una perdita di peso e un miglioramento della sazietà anche con un follow-up a lungo termine. Inoltre, è stato dimostrato che i precarichi proteici rallentano lo svuotamento gastrico in partecipanti sani e in pazienti con diabete di tipo 2 con concentrazioni di GLP-1 postprandiali più elevate. Questi sono anche i pazienti nei quali gli analoghi del GLP-1 hanno dimostrato la maggiore efficacia.
3. I pazienti con il fenotipo della fame emotiva possono trarre i maggiori benefici da un intervento psicoterapeutico comportamentale strutturato per la definizione degli obiettivi, l’automonitoraggio e il controllo degli stimoli. Inoltre, è stato dimostrato che gli approcci basati sulla mindfulness riducono l’alimentazione emotiva e aiutano ad aumentare l’autoconsapevolezza.
4. Un basso dispendio energetico facilita l’aumento di peso promuovendo un bilancio energetico positivo. La riduzione del tasso metabolico sarebbe l’aspetto critico da affrontare nei soggetti “a combustione lenta”. È stata riscontrata un’eccellente relazione dose-risposta tra l’allenamento di resistenza e l’ipertrofia muscolare. Inoltre, in questi casi si è visto che diete a basso contenuto di carboidrati e ad alto contenuto proteico hanno migliorato la forza e le dimensioni dei muscoli aumentando il dispendio energetico. Laddove sia presente una malattia metabolica, la terapia di quest‘ultima diviene ovviamente prioritaria.
Questo almeno è cio che si può dire per certo – ad oggi – sulla base dei dati disponibili.

Gli obesi non sono tutti uguali

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Vi siete mai chiesti come mai vi siano così tanti fallimenti terapeutici nella terapia dell’obesità? Il motivo è presto detto; gli obesi non sono tutti uguali. Quando si parla di obesità infatti, se ne possono distinguere almeno quattro tipi diversi che hanno cause diverse e che necessitano pertanto di trattamenti individualizzati. In questo post cercherò di spiegarveli.
1. L’obesità che dipende da un cervello affamato origina dal fatto che l’individuo non riesce a percepire i segnali della sazietà continuando a ingurgitare cibo senza sentirsi pieno. Questo tipo di problema deriva solitamente da un profilo genetico che presenta alterazioni dei geni che controllano gli ormoni della sazietà. In questi casi il paziente vi dice che per quanto mangi gli sembra di non sentirsi mai sazio.
2. L’obesità che dipende da un apparato gastrointestinale affamato deriva dal fatto che l’individuo riesce apparentemente a saziarsi e a terminare il pasto ma poi, dopo poco tempo, ricomincia a provare la sensazione di fame e ricomincia a mangiare, come se lo stomaco si svuotasse in maniera eccessivamente rapida. Questo tipo di problema dipende dal profilo ormonale digestivo e può dipendere da una combinazione di fattori genetici e comportamentali. In questi casi il paziente vi dice che quando mangia si sazia ma che, dopo un po’, gli ritorna la fame.
3. L’obesità che dipende dal mangiare emozionale deriva dal fatto che l’individuo utilizza il cibo come se fosse uno psicofarmaco per gestire emozioni disturbanti. Questo tipo di problema dipende da una errata abitudine acquisita solitamente in tenera età ma possono essere presenti anche profili genetici specifici che paiono predisporre a tale condizione. In questi casi il paziente vi dice che tende a mangiare quando è teso, depresso, ansioso o arrabbiato.
4. L’obesità che dipende da un metabolismo rallentato deriva dal fatto che l’individuo presenta una scarsa massa muscolare o è affetto da anomalie metaboliche di diverso tipo (ad es. diabete o sindrome metabolica, etc.) che rendono il suo metabolismo più lento compromettendo il dispendio energetico. Questo tipo di problema dipende solitamente dagli esiti di un errato stile di vita o dall’utilizzo di alcuni farmaci ma, nei casi a insorgenza giovanile, possono essere implicati specifici profili genetici. In questi casi il paziente vi dice che, per quanto mangi poco, sembra che qualsiasi cosa mangi lo faccia ingrassare.
Da questa suddivisione dovrebbe essere molto chiara la differenza che esiste tra i diversi fenotipi patologici e il tipo di terapie da attuarsi in ciascuno di questi.
Non occorre essere dei maghi per trattare con successo questi pazienti, l’importante è fare una valutazione adeguata del loro fenotipo fin dal primo consulto.
Va da sé che nei casi più avanzati diviene possibile anche una sovrapposizione tra alcuni di questi quadri e questo complica sia la diagnosi che le terapie. Ecco perché il miglior trattamento dell’obesità è sempre quello precoce.
Un’ultima precisazione. Dato che ho citato più volte l’influenza della genetica, ricordo a tutti che quando si parla di geni ci si riferisce sempre a un concetto di predisposizione e non di predestinazione.
Anche nei casi in cui è presente una genetica sfavorevole è importante concentrare le terapie sul tipo di problema sottostante, al di là della predisposizione in sé. La cosa importante da ricordare per quanto riguarda il profilo genetico dell’obeso è che alcuni nuovi farmaci (come la semaglutide) funzionano quasi esclusivamente per determinati profili e non per altri.

Quando l’Alzehimer si maschera da DCA

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Oggi vorrei parlarvi di un sintomo che mima il quadro di un DCA senza esserlo e che rappresenta invece uno dei segni premonitori della malattia di Alzheimer, un tipo di demenza che si caratterizza per una serie di disturbi cognitivi e comportamentali e per un quadro neurodegenerativo che porta a morte prematura i pazienti che ne sono affetti.

Pochi lo sanno (e mi riferisco anche a molti medici non specialisti in neurologia) ma uno dei primi segni della malattia consiste in un cambiamento delle abitudini alimentari che può apparire talora paradossale. Pensate a un vegano che inizia a preferire le carni, o a una persona che tendeva a mangiare prevalentemente insipido che inizia ad aggiungere grandi quantità di sale e/o spezie, a un individuo intollerante al lattosio che iniza a nutrirsi di latticini o, ancora, a una persona che mangia in continuazione mentre prima aveva sempre osservato una rigorosa moderazione ai pasti.

Qual’è il motivo per cui si verificano questi sintomi? Pare che la motivazione sia da ricercarsi in una progressiva perdita del senso del gusto che può verificarsi tanto nelle fasi precoci quanto nelle fasi avanzate della malattia. A questo si deve poi aggiungere il deficit mnesico che fa sì che i pazienti perdano la memoria delle loro precedenti abitudini e/o preferenze alimentari, fino a dimenticarsi di avere già consumato un pasto e a sentire nuovamente la sensazione della fame.

A tutto questo si aggiunge il fatto che con il progredire della demenza le persone affette da Alzehimer possono dimenticare le regole della tavola, come l’uso delle posate, o gli orari dei pasti inizando così a nutrirsi negli orari più strani.

Dato che sarebbe importante che i pazienti affetti da questa malattia seguissero una dieta ricca in alimenti antinfiammatori e antiossidanti, è davvero importante che le persone che si prendono cura di questi pazienti siano al corrente di queste problematiche. Certo questo non servirà a cambiare radicalmente il loro destino ma sicuramente migliorerà la loro qualità della vita e potrà servire in alcuni casi ad arrivare a una diagnosi precoce.