Gli obesi non sono tutti uguali

Image ©:FreePhotosART

Vi siete mai chiesti come mai vi siano così tanti fallimenti terapeutici nella terapia dell’obesità? Il motivo è presto detto; gli obesi non sono tutti uguali. Quando si parla di obesità infatti, se ne possono distinguere almeno quattro tipi diversi che hanno cause diverse e che necessitano pertanto di trattamenti individualizzati. In questo post cercherò di spiegarveli.
1. L’obesità che dipende da un cervello affamato origina dal fatto che l’individuo non riesce a percepire i segnali della sazietà continuando a ingurgitare cibo senza sentirsi pieno. Questo tipo di problema deriva solitamente da un profilo genetico che presenta alterazioni dei geni che controllano gli ormoni della sazietà. In questi casi il paziente vi dice che per quanto mangi gli sembra di non sentirsi mai sazio.
2. L’obesità che dipende da un apparato gastrointestinale affamato deriva dal fatto che l’individuo riesce apparentemente a saziarsi e a terminare il pasto ma poi, dopo poco tempo, ricomincia a provare la sensazione di fame e ricomincia a mangiare, come se lo stomaco si svuotasse in maniera eccessivamente rapida. Questo tipo di problema dipende dal profilo ormonale digestivo e può dipendere da una combinazione di fattori genetici e comportamentali. In questi casi il paziente vi dice che quando mangia si sazia ma che, dopo un po’, gli ritorna la fame.
3. L’obesità che dipende dal mangiare emozionale deriva dal fatto che l’individuo utilizza il cibo come se fosse uno psicofarmaco per gestire emozioni disturbanti. Questo tipo di problema dipende da una errata abitudine acquisita solitamente in tenera età ma possono essere presenti anche profili genetici specifici che paiono predisporre a tale condizione. In questi casi il paziente vi dice che tende a mangiare quando è teso, depresso, ansioso o arrabbiato.
4. L’obesità che dipende da un metabolismo rallentato deriva dal fatto che l’individuo presenta una scarsa massa muscolare o è affetto da anomalie metaboliche di diverso tipo (ad es. diabete o sindrome metabolica, etc.) che rendono il suo metabolismo più lento compromettendo il dispendio energetico. Questo tipo di problema dipende solitamente dagli esiti di un errato stile di vita o dall’utilizzo di alcuni farmaci ma, nei casi a insorgenza giovanile, possono essere implicati specifici profili genetici. In questi casi il paziente vi dice che, per quanto mangi poco, sembra che qualsiasi cosa mangi lo faccia ingrassare.
Da questa suddivisione dovrebbe essere molto chiara la differenza che esiste tra i diversi fenotipi patologici e il tipo di terapie da attuarsi in ciascuno di questi.
Non occorre essere dei maghi per trattare con successo questi pazienti, l’importante è fare una valutazione adeguata del loro fenotipo fin dal primo consulto.
Va da sé che nei casi più avanzati diviene possibile anche una sovrapposizione tra alcuni di questi quadri e questo complica sia la diagnosi che le terapie. Ecco perché il miglior trattamento dell’obesità è sempre quello precoce.
Un’ultima precisazione. Dato che ho citato più volte l’influenza della genetica, ricordo a tutti che quando si parla di geni ci si riferisce sempre a un concetto di predisposizione e non di predestinazione.
Anche nei casi in cui è presente una genetica sfavorevole è importante concentrare le terapie sul tipo di problema sottostante, al di là della predisposizione in sé. La cosa importante da ricordare per quanto riguarda il profilo genetico dell’obeso è che alcuni nuovi farmaci (come la semaglutide) funzionano quasi esclusivamente per determinati profili e non per altri.

Quando l’Alzehimer si maschera da DCA

Image ©: Geralt@Pixabay

Oggi vorrei parlarvi di un sintomo che mima il quadro di un DCA senza esserlo e che rappresenta invece uno dei segni premonitori della malattia di Alzheimer, un tipo di demenza che si caratterizza per una serie di disturbi cognitivi e comportamentali e per un quadro neurodegenerativo che porta a morte prematura i pazienti che ne sono affetti.

Pochi lo sanno (e mi riferisco anche a molti medici non specialisti in neurologia) ma uno dei primi segni della malattia consiste in un cambiamento delle abitudini alimentari che può apparire talora paradossale. Pensate a un vegano che inizia a preferire le carni, o a una persona che tendeva a mangiare prevalentemente insipido che inizia ad aggiungere grandi quantità di sale e/o spezie, a un individuo intollerante al lattosio che iniza a nutrirsi di latticini o, ancora, a una persona che mangia in continuazione mentre prima aveva sempre osservato una rigorosa moderazione ai pasti.

Qual’è il motivo per cui si verificano questi sintomi? Pare che la motivazione sia da ricercarsi in una progressiva perdita del senso del gusto che può verificarsi tanto nelle fasi precoci quanto nelle fasi avanzate della malattia. A questo si deve poi aggiungere il deficit mnesico che fa sì che i pazienti perdano la memoria delle loro precedenti abitudini e/o preferenze alimentari, fino a dimenticarsi di avere già consumato un pasto e a sentire nuovamente la sensazione della fame.

A tutto questo si aggiunge il fatto che con il progredire della demenza le persone affette da Alzehimer possono dimenticare le regole della tavola, come l’uso delle posate, o gli orari dei pasti inizando così a nutrirsi negli orari più strani.

Dato che sarebbe importante che i pazienti affetti da questa malattia seguissero una dieta ricca in alimenti antinfiammatori e antiossidanti, è davvero importante che le persone che si prendono cura di questi pazienti siano al corrente di queste problematiche. Certo questo non servirà a cambiare radicalmente il loro destino ma sicuramente migliorerà la loro qualità della vita e potrà servire in alcuni casi ad arrivare a una diagnosi precoce.

 

Quando usare il BETQ e perché

Image ©:EveydayHealth

Il Binge Eating Trigger Questionnaire (BETQ) è uno strumento di indagine progettato per identificare i fattori scatenanti che portano gli individui a mettere in atto comportamenti di abbuffata. Sviluppato per approfondire la comprensione del disturbo da alimentazione incontrollata (BED) e dei disturbi alimentari a questo correlati, il BETQ esplora varie dimensioni come gli stati emotivi, i contesti situazionali e le dinamiche interpersonali che possono scatenare un’abbuffata.

Prendendo in considerazione fattori come lo stress, la noia, le pressioni sociali e l’immagine negativa di sé, il questionario aiuta i medici e i ricercatori a personalizzare gli interventi e le strategie di trattamento in modo più efficace.

Somministrato in formato self-report, il BETQ è composto da item che gli intervistati valutano in base alle loro esperienze legate alle abbuffate. Le risposte forniscono indicazioni sulla complessa interazione tra elementi cognitivi, emotivi e ambientali che contribuiscono alla perdita di controllo.

Questo approccio mirato facilita lo sviluppo di piani terapeutici personalizzati, tra cui la terapia cognitivo-comportamentale (CBT), la terapia dialettica del comportamento (DBT) e gli interventi basati sulla mindfulness, che mirano ad affrontare le cause profonde delle abbuffate piuttosto che i loro semplici sintomi.

Il BETQ rappresenta uno strumento prezioso nell’arsenale contro i disturbi alimentari, in quanto è forse l’unico strumento esistente che i pazienti possono usare in autonomia per comprendere le ragioni dell’overeating/emotional eating.

La versione da noi elaborata nel corso degli anni (stampabile dal nostro sito) è stata messa a punto grazie ai suggerimenti di tanti pazienti che abbiamo trattato e che hanno suggerito aggiunte e modifiche alla versione originale. Grazie al loro aiuto il numero delle domande è quasi raddoppiato ma ciò ha reso lo strumento più sensibile e pertanto più valido.

I nostri pazienti suggeriscono di utilizzare il BETQ subito prima di cedere alla tentazione dell’abbuffata in quanto questo è il momento migliore per riuscire a mettere a fuoco lo stato d’animo sottostante; compilare il test a posteriori, come si consiglia di solito, dà origine a risultati meno precisi.

Se per voi l’alimentazione emozionale rappresenta un problema, anche al di fuori da un BED, sicuramente il BETQ può aiutarvi a far luce su quali sono i fattori scatenanti la perdita di controllo e permettervi una visione più ampia delle vostre parti oscure. Provate a utilizzarlo!

La sindrome da rialimentazione

Image ©: GI Society

La sindrome da rialimentazione (refeeding syndrome per gli autori anglosassoni) rappresenta la complicazione più grave – talvolta mortale – che può verificarsi durante la rialimentazione di pazienti gravemente malnutriti (o che digiunano da almeno 7-10 giorni) e il cui metabolismo si è ormai adattato all’utilizzo degli acidi grassi e dei corpi chetonici per la produzione di energia.

Questo problema riguarda molti tipi di malattie – tra le quali anche l’Anoressia Nervosa (AN) – allorchè i pazienti vengono ricoverati in ospedale in stato di grave sottopeso e sottoposti ad un programma di nutrizione intensiva troppo aggressivo. Il disturbo insorge solitamente entro i primi due o tre giorni della rialimentazione e consegue a una serie di anomalie metaboliche che derivano dalle alterazioni idro-elettrolitiche scatenate dall’aumento di nutrienti assorbiti dalle cellule del paziente (grazie alla rinnovata stimolazione insulinica) le quali richiamano al loro interno una serie di minerali sottraendoli al circolo sanguigno.

Queste alterazioni, che coinvolgono i livelli sierici di fosfati, magnesio e potassio, scatenano anomalie a livello neurologico, cardiovascolare, polmonare, neuromuscolare ed ematologico talmente gravi che, se non viene riconosciuta e adeguatamente trattata nel più breve tempo possibile, la sindrome da rialimentazione può portare alla morte del paziente.

La terapia è innanzitutto preventiva, e consiste nell’aumentare progressivamente il carico calorico e nutrizionale nel corso della rialimentazione, misurando continuamente i livelli plasmatici di glicemia, trigliceridi, elettroliti e bicarbonati e supplementando il paziente con complessi vitaminici e minerali. A partire dal settimo giorno di rialimentazione il rischio di sviluppare una sindrome da rialimentazione si abbassa repentinamente fino ad azzerarsi.

Questo è il motivo per cui, quando una paziente con grave stato di denutrizione viene ricoverata in ospedale, nel corso delle prime settimane di degenza viene solitamente accolta in un reparto di medicina o di nutrizione clinica anzichè in psichiatria. E questo è anche il motivo per cui, quando è presente una grave malnutrizione la rialimentazione andrebbe sempre condotta in ambiente ospedaliero.

Social media e contagio psicosomatico

Image ©: ABIT

Il ruolo dei social media come incubatore di psicopatologia della personalità e del comportamento, in particolare nel contesto dei disturbi alimentari, consiste in una complessa interazione tra autenticità dei sintomi e contagio sociale di tipo psicosomatico. Queste piattaforme agiscono spesso come strumenti a doppio taglio, offrendo da un lato reti di supporto e perpetuando al contempo comportamenti e ideali dannosi.

Certo, i social media possono fornire un sostegno e una convalida alle persone che lottano contro i disturbi alimentari. Le piattaforme possono offrire comunità in cui gli individui condividono esperienze, strategie di coping e storie di guarigione. Grazie a questo aspetto che si basa sull’autenticità dei sintomi e dei disturbi, i pazienti trovano contenuti utili e si sentono meno isolati nelle loro lotte.

Tuttavia, il lato oscuro dei social media risiede nel loro potenziale ruolo di contagio sociale psicosomatico. La natura pervasiva delle immagini corporee idealizzate e la glorificazione della magrezza possono esacerbare l’insoddisfazione corporea e i comportamenti alimentari disordinati. Gli utenti, soprattutto gli adolescenti e i giovani adulti, sono particolarmente suscettibili a queste influenze a causa della loro fase di sviluppo e dell’elevato coinvolgimento nei social media. L’esposizione costante a tali contenuti (frequentemente falsati) può portare all’interiorizzazione di standard non salutari, innescando o peggiorando i disturbi alimentari.

Molti contenuti presenti su piattaforme come TikTok si presentano come fake dal punto di vista psicopatologico, nel senso che suggeriscono insiemi di segni e sintomi che non corrispondono nella realtà ad alcuna patologia realmente esistente. Il cosiddetto fenomeno del “confrontati-e-disperati”, in cui gli utenti confrontano il proprio corpo e le proprie abitudini alimentari con quelle descritte online, provoca spesso sentimenti di inadeguatezza e un’immagine corporea distorta. Questo confronto può fungere da catalizzatore o intensificare i disturbi  pre-esistenti.

In conclusione, se da un lato i social media possono convalidare e sostenere chi soffre di disturbi alimentari, dall’altro possono favorire e amplificare queste condizioni attraverso il contagio sociale psicosomatico inducendo quadri sintomatici che risultano confusivi anche per i clinici che sono chiamati a valutarli. L’impatto dei social media sui disturbi mentali in genere è un misto del riflesso di testimonianze reali e del contributo allo sviluppo o all’esacerbazione di queste condizioni da parte di contibuti di dubbia veridicità che spesso promuovono immagini e comportamenti imitativi malsani. Purtroppo ad oggi non esistono ancora watch-dogs in grado di prevenire la diffusione di contenuti tossici in rete e gli stessi controllori delle piattaforme incriminate non sembrano prendere sul serio il problema.

Utilità della pet therapy nei DCA

Image ©: ABIT

Nell’intricato percorso di guarigione dai disturbi alimentari, si cercano continuamente approcci innovativi per integrare le terapie tradizionali. Tra questi, la pet therapy, nota anche come terapia assistita dagli animali (TAA), sta emergendo come uno strumento efficace e conveniente.

Questo post esplora come gli interventi assistiti dagli animali stanno aiutando molte persone nella loro battaglia contro i disturbi alimentari.
Uno dei benefici più profondi della pet therapy è l’amore incondizionato e l’accettazione che gli animali forniscono.

Per le persone che lottano contro i disturbi alimentari, spesso alle prese con intensi sensi di colpa, vergogna e bassa autostima, la compagnia non giudicante di un animale può essere incredibilmente lenitiva. Gli animali domestici non si preoccupano del proprio aspetto o delle proprie abitudini alimentari; il loro affetto è incrollabile.

È dimostrato che l’interazione con gli animali domestici riduce i livelli di stress e di ansia. Il semplice atto di accarezzare un cane o un gatto può rilasciare endorfine, creando un senso di calma e benessere. Questo può essere particolarmente benefico nei momenti di forte ansia o angoscia, comuni nel recupero dei disturbi alimentari.

Prendersi cura di un animale domestico richiede una routine e un senso di responsabilità che possono essere terapeutici per le persone in fase di recupero. Nutrire, curare e far fare esercizio a un animale domestico può aiutare a dare una struttura alla giornata, un aspetto cruciale per riacquistare il controllo sulle abitudini alimentari e sulle scelte di vita.

Sebbene la pet therapy non sia un trattamento validato specificamente per i disturbi alimentari, è un approccio complementare che può migliorare significativamente il percorso di recupero. Il legame tra uomini e animali è speciale e, nel contesto dei disturbi alimentari, può essere una fonte di conforto, motivazione e speranza.

L’Italia è attualmente l’unico paese Europeo ad aver implementato una regolamentazione delle terapie assistite con gli animali e dispone già da diversi anni di un registro nazionale degli operatori certificati e autorizzati all’utilizzo di terapie assistite dagli animali. Queste terapie possono essere condotte con diversi tipi di animali: dai cani, ai cavalli, agli asini e talora anche con gatti o conigli domestici. Un intervento assistito può essere richiesto sia dal paziente (o dai suoi familiari), come pure dal medico o dallo psicologo di riferimento.

Mentre continuiamo a esplorare e comprendere la natura multiforme dei disturbi alimentari, è importante ricordare che l’inclusione della pet therapy in un progetto terapeutico può offrire un addendum gentile – ma potente – nel percorso verso la guarigione e il benessere.

Anoressia: l’impatto della mindfulness

Image ©: ha11ok_Pixabay

La meditazione mindfulness è già da tempo un metodo riconosciuto a livello mondiale per affrontare l’Anoressia Nervosa. La sua efficacia nel trattamento clinico della cachessia neurogena (gli stati più gravi di dimagrimento presenti in alcune pazienti affette da AN), tuttavia, non mai era stata studiata fino ad oggi.

Uno studio condotto presso la Kyoto University’s Graduate School of Medicine ha dimostrato che la meditazione mindfulness riduce effettivamente l’ansia associata al peso. I risultati ottenuti mostrano infatti cambiamenti nell’attività delle regioni cerebrali coinvolte nell’ansia. Il programma di meditazione mindfulness proposto nel corso dello studio ha visto una diminuzione significativa dei pensieri ossessivi sull’immagine di sé dei soggetti del test e dell’attività cerebrale associata alle emozioni correlate.

Mindfulness e meditazione vanno di pari passo. La prima insegna ai praticanti ad affinare la consapevolezza dell’esperienza presente e la capacità di non giudicare e accettare le circostanze. La seconda è il mezzo con cui ci si può avvicinare alla mindfulness. “Ci siamo concentrati sulla possibilità che i pazienti con AN cerchino di evitare l’ansia paralizzante per l’aumento di peso e l’immagine di sé limitando il cibo o vomitando”, aggiunge il coautore Masanori Isobe.

Un programma di intervento mindfulness di 4 settimane ha esaminato i cambiamenti neurali utilizzando compiti progettati per indurre l’ansia legata al peso in 22 pazienti. I ricercatori hanno poi regolato l’ansia aiutando i pazienti ad accettare le situazioni e le esperienze attuali al loro valore nominale, invece di evitarle.

I ricercatori hanno utilizzato la risonanza magnetica funzionale (o fMRI) per analizzare la regolazione dell’attenzione in relazione ai disturbi alimentari. I risultati dello studio hanno confermato le impressioni dei ricercatori, nonostante diversi eventi, come la pandemia di Covid-19 e la guerra russo-ucraina, siano stati evidenziati come fattori significativi di aggravamento per le ansie dei pazienti.

 

Bulimia: i farmaci da evitare

Image ©: ABIT

Esistono farmaci che sarebbe meglio evitare quando si soffre di bulimia nervosa? La risposta è affermativa. Iniziamo con il dire che i farmaci che vengono più spesso usati in questi casi in aggiunta alla psicoterapia sono gli antidepressivi che inibiscono la ricaptazione della serotonina (SSRI). Tra questi i più prescritti sono – in ordine di efficacia – la fluoxetina, la sertralina e il citalopram.

Sebbene questo tipo di sostanze abbiano dimostrato la loro efficacia in pazienti affette da bulimia, non è raro riscontrare in molti di questi casi la concomitante presenza di altre patologie quali una depressione maggiore, disturbi bipolari, disturbi d’ansia, disturbo borderline di personalità, o dipendenze miste da alcool o sostanze. Queste cosiddette comorbidità possono rendere necessario l’utilizzo di altri farmaci quali stabilizzatori dell’umore o neurolettici.

In tutti questi casi la scelta del farmaco o dei farmaci da utilizzare dovrebbe tenere in attenta considerazione l’elevato livello di impulsività che è presente in queste pazienti (anche in assenza di disturbi di personalità), e la possibilità di reazioni crociate con altri farmaci che vengono spesso autoprescritti e abusati quali lassativi, diuretici, stimolanti (per la soppressione dell’appetito e/o come bruciagrassi).

Nella scelta dei farmaci da utilizzare inoltre, bisognerebbe sempre considerare i possibili rischi collegati alle complicanze mediche del vomito autoindotto e della diarrea indotta da lassativi che causano spesso disidratazione e alterazioni elettrolitiche di diverso tipo. Tanto per fare qualche esempio, i farmaci che possono causare prolungamento dell’intervallo QT dell’elettrocardiogramma, quali gli antidepressivi triciclici e alcuni neurolettici, possono causare gravi aritmie in presenza di deficit di potassio. Farmaci eliminati per via renale quali il litio dovrebbero essere evitati per gli stessi motivi (disidratazione e disionie). Il bupropione (un antidepressivo ancora spesso prescritto in questi casi) può causare crisi epilettiche in queste pazienti e per questo motivo ha ricevuto un Black Box Warning della FDA negli Stati Uniti.

Infine i farmaci che possono causare un aumento della fame non sono indicati in questi casi in quanto possono peggiorare la sintomatologia compensatoria delle pazienti. Per sintetizzare quanto detto è importante ricordare che la bulimia può trarre beneficio dal trattamento con alcuni farmaci (in particolare alcuni SSRI) che andrebbero sempre associati ad una psicoterapia specialistica, la scelta del farmaco o dei farmaci da utilizzarsi dovrebbe però essere guidata da una attenta valutazione dei potenziali rischi che esistono in questa specifica popolazione di pazienti.

Abbuffarsi

Image ©: Kalhh / Pixabay

Il BED (Binge Eating Disorder), o DAI (Disturbo da Alimentazione Incontrollata), è stato ufficialmente introdotto nel DSM soltanto nel 2013 con il DSM-5. Ciò nonostante, i primi resoconti di questo tipo di patologia nella letteratura scientifica risalgono al 1932 allorchè venne descritto un quadro clinico caratterizzato dalla compresenza di depressione, binge eating.

Gli attuali criteri per diagnosticare un BED / DAI consistono nella presenza di almeno un episodio di abbuffata settimanale, con ingestione di una grande quantità di cibo, associata a perdita di controllo nell’assunzione degli alimenti, ma senza la presenza di alcuna strategia compensatoria finalizzata alla riduzione del danno (altrimenti si parla di Bulimia Nervosa).

La chiave per la diagnosi è nella “perdita di controllo” caratterizzata dal fatto che l’individuo continua introdurre cibo nonostante di senta già pieno e non senta più il sapore del cibo e, nonostante provi il desiderio di fermarsi, non riesce a farlo. Gli alimenti utilizzati sono solitamente ad elevato tenore calorico e vengono preparati o acquistati in anticipo quasi pregustando l’abbuffata, sebbene poi però il paziente si senta in colpa per questa. Inoltre l’atto dell’abbuffarsi avviene solitamente in segreto.

Le persone che soffrono di BED / DAI sono solitamente in sovrappeso o francamente obese e la gravità della loro obesità si correla direttamente con la gravità del disturbo del comportamento alimentare. Spesso hanno una storia familiare di depressione e obesità e tendono a dare una valutazione negativa di sè stesse. Il problema è frequentemente insorto già prima dell’adolescenza, condizionando negativamente lo sviluppo della personalità. Non a caso il BED / DAI si associa spesso a disturbi della personalità di diverso tipo.

Se consideriamo il fatto che le obesità più gravi sono spesso associate a questo tipo di disturbo del comportamento alimentare, diviene incontestabile l’importanza di considerare sempre la dimensione psicologica dell’individuo obeso. Se infatti ci si limita a trattare un paziente obeso affetto da BED / DAI con un approccio dietetico è altamente probabile che non si otterranno grandi risultati sul suo peso e che si avrà ben presto una serie di insuccessi terapeutici che demotiveranno il paziente dal richiedere ulteriori terapie.

Viceversa, quando viene diagnosticato nelle prime fasi del suo sviluppo, il BED / DAI ha un’ottima prognosi e può essere superato senza grandi difficoltà prima che le sue conseguenze fisiche e psicologiche divengano gravi. Una volta che il disturbo evolve, invece, è spesso necessario affidarsi a centri riabilitativi (peraltro ancora piuttosto rari in Italia) che utilizzano programmi integrati per cercare di invertire le problematiche psicofisiche del paziente.

Se dovessimo sintetizzare queste poche righe, potremmo dire che il BED / DAI è una patologia che può essere vinta facilmente se trattata all’esordio ma che può diventare altamente invalidante se trascurata o affrontata quando ormai le problematiche fisiche e psicologiche si sono ormai strutturate. Quindi, se vi sembra di essere affetti da questo tipo di disturbo, cercate di chiedere aiuto il prima possibile. Vincere questi problemi è assolutamente possibile!

 

DCA Coaching

Image ©: Gilles Mingasson / Netflix

Negli ultimi due o tre anni si sente spesso parlare di Coach per i disturbi alimentari; ma che cos’è esattamente un DCA Coach? E cosa bisognerebbe controllare prima di affidare la propria salute a una di queste figure professionali?

Con la crescita della domanda di cure per i disturbi del comportamento alimentare (aumentati esponenzialmente negli anni della pandemia) e data la cronica incapacità dei servizi di salute mentale nel rispondere adeguatamente a questo tipo di richieste, vi sono sempre più figure professionali parallele (operanti solitamente nel privato) che cercano di riempire i vuori lasciati dal SSN e, talora, alcune di queste figure hanno davvero ben poco di “professionale”.

E così, in aggiunta alle varie associazioni e gruppi di pazienti/genitori che da anni cercano di proporre una valida alternativa ai servizi, in supporto a questi pazienti, gli anni della pandemia hanno visto il fiorire di una moltitudine di coach specializzatisi nel supporto e nella riabilitazione di pazienti affetti da questo tipo di disturbi.

Questo florilegio si è verificato non soltanto in Italia ma più o meno in tutti i paesi del mondo occidentale (Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Germania, Australia, etc.) che sono i più affetti dal proliferare dei DCA. In Italia purtroppo se ne parla ancora poco o nulla. Vero, la pandemia ha visto esplodere il fenomeno del coaching online in genere. Dai Coach finanziari, a quelli del fitness, da quelli di coppia, a quelli del wellness, sembra vi sia una coorte di personaggi in grado di soddisfare bisogni di qualsiasi tipo. Purtroppo, molti di questi “specialisti” nell’altrui problem-solving non sempre sono in possesso dei titoli o delle qualifiche più adeguate al ruolo che impersonano e molte (troppe) persone in difficoltà finiscono per affidarsi a costoro prima ancora di verificarle.

Ma dove si trovano questo tipo di Coach? La maggior parte di loro pubblicizza la propria attività tramite i social media (Instagram, FB, Pinterest e TikTok innanzitutto). Il processo di selezione dei pazienti (prevalentemente di sesso femminile) si basa su una serie di questionari da compilarsi online che indagano il peso e il tipo di richiesta dei pazienti. La promessa è tipicamente quella di liberarsi dai sintomi del disturbo recuperando il peso desiderato (dal paziente; non necessariamente quello ideale), il risultato è garantito e i titoli formativi del coach vengono solitamente esagerati al fine di attrarre clienti. Il prezzo richiesto può andare da qualche centinaio a qualche migliaio di euro, pagati solitamente attraverso canali difficilmente tracciabili.

Negli ultimi tre anni mi è capitato di incontrare otto pazienti che erano rimasti vittime di questo tipo di pratiche scorrette. In quattro di questi casi, erano addirittura evidenti reati che andavano dalla tentata violenza carnale alla circonvenzione di incapace. Sicuramente – diranno i lettori – quando ciò accade la colpa è da imputarsi tanto alla vittima quanto all’impostore ma in realtà sono da considerarsi complici anche molte piattaforme social che fingono di ignorare cosa accade tra le loro pagine web.

Inoltre, la legislazione che riguarda il coaching / counselling (sia in Italia che nel resto dei paesi occidentali), è gravemente carente al punto che, se digitate “come diventare coach” sui motori di ricerca scoprirete una quantità di corsi che promettono di mettervi in grado di diventare coach certificati, indipendentemente dalle vostre competenze di partenza. Evidentemente si tratta di un mercato ricco di richieste e questo dà l’idea delle dimensioni del problema.

Come proteggersi? Innanzitutto diffidando dalle offerte di aiuto non richieste, specie se queste provengono da piattaforme social (indipendentemente dal fatto che si tratti di persone dello stesso sesso, piuttosto che di persone di sesso opposto). Se si decide di richiedere aiuto è fondamentale verificare i titori del counsellor (consiglio di evitare direttamente coloro che si autoproclamano coach). Si tratta di un laureato/a in medicina o psicologia? Può dimostrare il possesso di una specializzazione in psicoterapia e/o nel trattamento di disturbi del comportamento alimentare? Da quanto tempo opera sul mercato? E’ iscritto ad un albo professionale? Possiede una partita IVA o lavora per un presidio sanitario specialistico? E infine il pagamento; evitiamo le ricariche telefoniche, quelle su carte prepagate (tipo Mooney, etc.) e tutti i cosiddetti pagamenti non tracciabili. E, quando in dubbio, chiedete consiglio a qualcuno più esperto di voi. Oppure al vostro medico di fiducia.

Trovare persone competenti da cui farsi aiutare non è difficile. Il problema consiste nell’avere il coraggio di farlo e nel non farsi abbindolare dai falsi esperti.