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L'alimentazione come forma di comunicazione nei DCA

L’alimentazione come forma di comunicazione nei DCA

L'alimentazione come mezzo di comunicazione nei DCAImage ©: StockSnap

Oggi voglio parlarvi di come nei DCA l’alimentazione diviene una forma di comunicazione. Quando parliamo di disturbi del comportamento alimentare (DCA), infatti, pensiamo subito a calorie, peso, diete e ossessioni corporee. Ma chi lavora quotidianamente con questi pazienti sa bene che il cibo, in questi casi, raramente è solo nutrimento. Diventa un linguaggio, un codice non verbale attraverso cui la persona comunica vissuti profondi, spesso indicibili a parole.

Dal punto di vista psicodinamico, anoressia, bulimia o binge eating non vanno letti soltanto come “abitudini sbagliate” o come scelte consapevoli: sono modalità simboliche attraverso cui la persona cerca di esprimere bisogni emotivi, conflitti interiori, rabbia, dolore o il desiderio di esercitare controllo.

Molti pazienti con DCA hanno una grande difficoltà a dare voce alle proprie emozioni. Le emozioni vengono percepite come troppo minacciose, troppo intense, oppure non trovano uno spazio di ascolto e riconoscimento nel contesto familiare o sociale. Il corpo e il comportamento alimentare diventano così un canale alternativo.

Rifiutare un pasto può significare “non ho spazio per te dentro di me”; abbuffarsi può esprimere un vuoto affettivo che si tenta di colmare; vomitare può rappresentare un bisogno disperato di espellere qualcosa di tossico, che non riguarda il cibo in sé, ma esperienze interiori difficili da digerire.

In molte storie cliniche emerge il tema della rabbia. Spesso si tratta di una rabbia non riconosciuta, repressa o vissuta come inaccettabile, soprattutto in contesti in cui la persona percepisce di non avere il diritto di esprimere aggressività o di affermare i propri bisogni.

Il corpo allora diventa teatro di una lotta silenziosa. Nel restringimento anoressico, la rabbia può rivolgersi verso di sé: “non ti concedo nulla, nemmeno il nutrimento”. Nell’abbuffata, la rabbia può assumere la forma di un atto impulsivo, quasi autosabotante: “riempio, distruggo, mi punisco”. Attraverso questi atti, la persona dice qualcosa che non riesce a pronunciare: “Sono arrabbiata, ma non posso dirtelo”.

Molte pazienti descrivono una sensazione di vuoto interiore difficile da definire. L’uso del cibo come strumento di regolazione emotiva nasce proprio dal tentativo di dare forma e confine a questo dolore che non si sa come definire a parole (alessitimia).

Il digiuno può rappresentare il bisogno di chiudersi, di anestetizzare la sofferenza fino a non sentirla più. L’abbuffata, al contrario, può essere un tentativo di riempire quel vuoto, almeno temporaneamente. Ma subito dopo arrivano il senso di colpa, il disgusto e il ciclo si ripete. In entrambi i casi, il cibo è la materia prima con cui si costruisce un messaggio corporeo: “sto male, ma non so come dirtelo”.

Il bisogno di controllo è un altro aspetto centrale. In contesti di vita percepiti come caotici o imprevedibili, il controllo sul corpo e sull’alimentazione diventa un’ancora. Decidere cosa, quanto e quando mangiare significa poter esercitare un potere su almeno un frammento della realtà.

Ma dietro questa apparente forza si cela spesso una profonda fragilità. Il controllo ossessivo non è altro che un tentativo di difesa, un modo per dire: “ho paura di perdermi, di essere invaso, di non contare nulla”. Così, l’alimentazione diventa una grammatica personale attraverso cui il soggetto cerca di mantenere un senso di sé.

Se il cibo è un linguaggio, il compito del clinico non è semplicemente “correggere” l’alimentazione. È piuttosto difficile decodificare il messaggio, restituirgli significato e creare uno spazio in cui ciò che era muto possa trovare voce.

La psicoterapia psicodinamica, in questo senso, diventa un luogo di traduzione: si cerca di comprendere quali emozioni, conflitti o bisogni siano nascosti dietro i comportamenti alimentari. Solo quando il paziente può sentirsi accolto nella sua complessità, senza giudizio, diventa possibile iniziare un lavoro di trasformazione.

Nei disturbi del comportamento alimentare, il cibo smette di essere nutrimento e diventa linguaggio. Un linguaggio fatto di silenzi, di gesti estremi, di rituali che parlano laddove le parole non arrivano. Riconoscere questa dimensione significa non ridurre il disturbo a un problema di peso o di dieta, ma restituirgli la sua profondità psicologica. Significa ascoltare il corpo come se fosse una lettera, una richiesta di aiuto che aspetta di essere letta e compresa.