In questa sezione trovi articoli informativi e aggiornati sui principali disturbi alimentari, come anoressia, bulimia, binge eating e altri comportamenti disfunzionali legati al rapporto con il cibo. Approfondimenti, sintomi, cause e percorsi terapeutici per comprendere e affrontare questi disturbi in modo consapevole. Risorse utili per chi soffre di disturbi del comportamento alimentare o per chi vuole aiutare una persona cara.

Mangiare luce. Pseudoscienze e disturbi identità

Mangiare luce: l’ascesa delle pseudoscienze alimentari nei disturbi dell’identità

Image ©:ReenablackMangiare luce. Pseudoscienze e disturbi identità

In questo post voglio parlarvi dell’ascesa delle pseudoscienze alimentari nei disturbi dell’identità. Il motivo è che negli ultimi anni ho visto diffondersi online una quantità di racconti seducenti: persone che dichiarano di vivere “di prana”, influencer che giurano di “resettare l’anima” con digiuni interminabili, community che promettono purezza e identità nuova attraverso regimi alimentari sempre più ristretti.

È il cosiddetto fascino del mangiare luce, un ombrello che include il Breatharianesimo, le diete estreme e la spiritualizzazione del digiuno estremo. Il problema? Queste narrazioni, pur presentandosi come percorsi di crescita, spesso alimentano disturbi dell’identità e disturbi alimentari. L’idea di “purificarsi” fino a diventare eterei rischia di trasformarsi in una gabbia: meno mangio, più valgo, più divengo “vero”. Un’equazione tossica.

Il Breatharianesimo sostiene che si possa vivere senza cibo (e talvolta senza acqua), nutrendosi soltanto di energia vitale. Non esistono prove scientifiche che lo supportino; esistono, invece, rischi medici gravissimi (malnutrizione, squilibri elettrolitici, complicanze cardiache). Dietro al linguaggio spirituale, spesso si nasconde una negazione del corpo—e quando l’identità è fragile, l’idea di trascenderlo diventa un’illusione seducente.

Quando l’identità è incerta, pensiamo a periodi di transizione, rotture, burnout, traumi, il bisogno di controllo, appartenenza e significato cresce. Le pseudoscienze alimentari offrono:

  • Controllo totale: “Se controllo il cibo, controllo la vita”. Ridurre l’assunzione diventa un modo rapido (e pericoloso) per sentire potere.

  • Purezza morale: il cibo non è più nutrimento, ma peccato o virtù. Nasce la spiritualizzazione del digiuno: meno mangio, più divengo “elevato”.

  • Identità di gruppo: community online offrono appartenenza, lessico comune, rituali, del tipo: “Noi capiamo la verità, gli altri dormono”.

  • Pensiero magico: promessa di trasformazione istantanea (“digiuna tre giorni e rinascirai”).

  • Dissociazione dal corpo: in chi ha storia di trauma, il corpo può essere vissuto come estraneo; affamarlo diventa un modo di non sentirlo.

Il digiuno ha radici culturali e religiose complesse; praticato in modo breve e consapevole, con indicazioni mediche, può avere significati personali legittimi. Ma nella versione social—challenge prolungate, “water fasting” di settimane, “dry fasting” come prova di purezza—si scivola presto in condotte disfunzionali che rinforzano sintomi ansiosi, depressivi e ossessivo-compulsivi. Quali?

  • Diminuzione rapida di peso, stanchezza estrema, capogiri, sincope.

  • Ossessioni su “cibi impuri”, rituali rigidi, conteggi maniacali.

  • Isolamento sociale: rifiuto di pasti in compagnia per “non contaminarsi”.

  • Linguaggio assolutista (“tutto o niente”, “puro/impuro”).

  • Segretezza, bugie su ciò che si mangia, pratica di digiuni prolungati non condivisi con familiari/curanti.

Sotto l’ideale di nutrirsi di luce spesso c’è sempre un desiderio legittimo: quello di sentirsi integri, liberi, in pace. Ma l’astensione ritualizzata non restituisce identità; la frantuma in una moltitudine di regole e colpa. Il vero desiderio da coltivare è un altro: ricongiungersi al corpo come luogo di sicurezza, trovare comunità non basate sulla restrizione, dare significato alla vita senza sacrificare la salute. Qui non si tratta di “forza di volontà”, ma di ricostruzione identitaria. Ecco una mappa essenziale:

  • Inventario dei trigger: annota quando emergono pensieri di purezza/restrizione (ora del giorno, profili seguiti, stati emotivi).

  • Sostituzioni narrative: quando compare “devo purificarmi”, rispondi con “posso regolarmi senza punirmi” e aggiungi un’azione di cura (bere, fare uno snack bilanciato, riposare).

  • Contratti di realtà: condividi con una persona fidata un patto anti-digiuno estremo (“se penso a un dry fast, ti scrivo prima”).

  • Feed detox: rimuovi contenuti pro-Breatharianesimo/diete estreme; segui profili di nutrizionisti e terapeuti con approccio evidence-based.

  • Team di supporto: valuta un percorso con uno psicoterapeuta specializzato in disturbi alimentari e un dietista con esperienza clinica. Se ci sono sintomi fisici, coinvolgi il tuo medico di fiducia

Attenzione infine ai casi in cui è necessario un controllo medico urgente. Mi riferisco specificamente a:

  • Capogiri, svenimenti, dolore toracico, amenorrea prolungata, perdita di peso rapida.

  • Condotte di digiuno >24–36 ore ripetute, soprattutto se accompagnate da disidratazione.

  • Pensieri autolesivi o ideazione suicidaria: in questi casi, contatta subito i servizi di emergenza o le linee di ascolto del tuo territorio.

Ricorda, la vera crescita spirituale non passa per l’invisibilità del corpo, ma per la sua riconciliazione. Nutrire il sé significa nutrire anche il corpo: con cibo, relazioni sane, riposo e senso. Se ti riconosci in questi temi, parlare con uno specialista può aprire un varco fuori dal labirinto. Se questo post ti ha parlato, salvalo e condividilo con chi potrebbe averne bisogno.

L'alimentazione come forma di comunicazione nei DCA

L’alimentazione come forma di comunicazione nei DCA

L'alimentazione come mezzo di comunicazione nei DCAImage ©: StockSnap

Oggi voglio parlarvi di come nei DCA l’alimentazione diviene una forma di comunicazione. Quando parliamo di disturbi del comportamento alimentare (DCA), infatti, pensiamo subito a calorie, peso, diete e ossessioni corporee. Ma chi lavora quotidianamente con questi pazienti sa bene che il cibo, in questi casi, raramente è solo nutrimento. Diventa un linguaggio, un codice non verbale attraverso cui la persona comunica vissuti profondi, spesso indicibili a parole.

Dal punto di vista psicodinamico, anoressia, bulimia o binge eating non vanno letti soltanto come “abitudini sbagliate” o come scelte consapevoli: sono modalità simboliche attraverso cui la persona cerca di esprimere bisogni emotivi, conflitti interiori, rabbia, dolore o il desiderio di esercitare controllo.

Molti pazienti con DCA hanno una grande difficoltà a dare voce alle proprie emozioni. Le emozioni vengono percepite come troppo minacciose, troppo intense, oppure non trovano uno spazio di ascolto e riconoscimento nel contesto familiare o sociale. Il corpo e il comportamento alimentare diventano così un canale alternativo.

Rifiutare un pasto può significare “non ho spazio per te dentro di me”; abbuffarsi può esprimere un vuoto affettivo che si tenta di colmare; vomitare può rappresentare un bisogno disperato di espellere qualcosa di tossico, che non riguarda il cibo in sé, ma esperienze interiori difficili da digerire.

In molte storie cliniche emerge il tema della rabbia. Spesso si tratta di una rabbia non riconosciuta, repressa o vissuta come inaccettabile, soprattutto in contesti in cui la persona percepisce di non avere il diritto di esprimere aggressività o di affermare i propri bisogni.

Il corpo allora diventa teatro di una lotta silenziosa. Nel restringimento anoressico, la rabbia può rivolgersi verso di sé: “non ti concedo nulla, nemmeno il nutrimento”. Nell’abbuffata, la rabbia può assumere la forma di un atto impulsivo, quasi autosabotante: “riempio, distruggo, mi punisco”. Attraverso questi atti, la persona dice qualcosa che non riesce a pronunciare: “Sono arrabbiata, ma non posso dirtelo”.

Molte pazienti descrivono una sensazione di vuoto interiore difficile da definire. L’uso del cibo come strumento di regolazione emotiva nasce proprio dal tentativo di dare forma e confine a questo dolore che non si sa come definire a parole (alessitimia).

Il digiuno può rappresentare il bisogno di chiudersi, di anestetizzare la sofferenza fino a non sentirla più. L’abbuffata, al contrario, può essere un tentativo di riempire quel vuoto, almeno temporaneamente. Ma subito dopo arrivano il senso di colpa, il disgusto e il ciclo si ripete. In entrambi i casi, il cibo è la materia prima con cui si costruisce un messaggio corporeo: “sto male, ma non so come dirtelo”.

Il bisogno di controllo è un altro aspetto centrale. In contesti di vita percepiti come caotici o imprevedibili, il controllo sul corpo e sull’alimentazione diventa un’ancora. Decidere cosa, quanto e quando mangiare significa poter esercitare un potere su almeno un frammento della realtà.

Ma dietro questa apparente forza si cela spesso una profonda fragilità. Il controllo ossessivo non è altro che un tentativo di difesa, un modo per dire: “ho paura di perdermi, di essere invaso, di non contare nulla”. Così, l’alimentazione diventa una grammatica personale attraverso cui il soggetto cerca di mantenere un senso di sé.

Se il cibo è un linguaggio, il compito del clinico non è semplicemente “correggere” l’alimentazione. È piuttosto difficile decodificare il messaggio, restituirgli significato e creare uno spazio in cui ciò che era muto possa trovare voce.

La psicoterapia psicodinamica, in questo senso, diventa un luogo di traduzione: si cerca di comprendere quali emozioni, conflitti o bisogni siano nascosti dietro i comportamenti alimentari. Solo quando il paziente può sentirsi accolto nella sua complessità, senza giudizio, diventa possibile iniziare un lavoro di trasformazione.

Nei disturbi del comportamento alimentare, il cibo smette di essere nutrimento e diventa linguaggio. Un linguaggio fatto di silenzi, di gesti estremi, di rituali che parlano laddove le parole non arrivano. Riconoscere questa dimensione significa non ridurre il disturbo a un problema di peso o di dieta, ma restituirgli la sua profondità psicologica. Significa ascoltare il corpo come se fosse una lettera, una richiesta di aiuto che aspetta di essere letta e compresa.

Disregolazione alimentare nei bambini

I segnali di disregolazione alimentare nei bambini

Disregolazione alimentare nei bambiniImage©: DayronV

Oggi parliamo di disregolazione alimentare nei bambini, una problematica abbastanza frequente e sulla quale molti lettori mi hanno chiesto chiarimenti.

Quando pensiamo ai disturbi alimentari, infatti, ci vengono in mente adolescenti o giovani adulti. Raramente pensiamo sia possibile che i primi segnali possano comparire già nei primi mesi di vita. Eppure, recenti studi di matrice sia psicodinamica che neurobiologica mostrano che le radici dei disturbi alimentari possono affondare nella primissima infanzia, ancor prima che il bambino parli o sviluppi una coscienza piena del proprio corpo.

Nel neonato, il cibo non è solo nutrizione: è relazione, contenimento, sicurezza. L’allattamento, che sia al seno o con biberon, è uno degli strumenti primari con cui il bambino sperimenta il mondo. Ogni poppata è un momento di connessione profonda con la figura di attaccamento.

Se questa relazione viene vissuta con ansia, ipercontrollo o discontinuità, il bambino può iniziare a mostrare comportamenti disorganizzati collegati all’atto del nutrirsi: rifiuto del seno, suzione irregolare, vomito funzionale o estrema passività durante l’alimentazione.

Alcuni comportamenti possono rappresentare campanelli d’allarme:

  • Rifiuto costante del cibo nonostante la fame

  • Pianto inconsolabile durante le poppate

  • Rigetto violento o vomito senza causa organica

  • Tensione corporea o irrigidimento quando si avvicina il biberon o il seno

  • Passività eccessiva: il bambino non richiede mai cibo

  • Reazioni fortemente ambivalenti: cerca il cibo ma lo rifiuta subito dopo

Spesso, questi segnali vengono attribuiti a coliche, dentizione o “una fase difficile”, ma quando persistono meritano un’osservazione più approfondita, specialmente se coesistono con difficoltà relazionali tra genitore e bambino.

Il sistema nervoso del neonato è in pieno sviluppo, e la regolazione delle emozioni avviene in gran parte attraverso la relazione con il caregiver. Il nutrirsi, in questo senso, diventa una forma di regolazione affettiva.

Diversi studi hanno evidenziato come un attaccamento disorganizzato nei primi mesi di vita possa predire future difficoltà alimentari e comportamenti auto-regolativi disfunzionali.

Quando si parla delle cause di diregolazione alimentare nei bambini non si tratta mai di “colpa” del genitore, ma di dinamiche inconsapevoli che si attivano nelle relazioni precoci. Depressione post-partum, stress cronico, difficoltà nel sintonizzarsi emotivamente con il bambino, possono alterare il clima relazionale durante l’alimentazione.

Questo spiega perché un intervento precoce – come la consulenza di un neuropsichiatra infantile, di un terapeuta dell’età evolutiva o di un consulente dell’allattamento – può interrompere sul nascere un ciclo di disregolazione che potrebbe sfociare in disturbi alimentari successivi.

Il concetto è che i disturbi alimentari non iniziano a tavola, ma molto tempo prima, nel momento in cui il bambino impara a sentire, comunicare e ricevere cura. Prestare attenzione ai segnali precoci non significa patologizzare ogni difficoltà, ma offrire uno sguardo più ampio e preventivo.

Riconoscere il disagio nella sua fase embrionale è un atto di cura, non di allarmismo. Perché talvolta, per capire l’origine del rifiuto del cibo, bisogna ascoltare ciò che ancora non è stato detto.

Intestino, serotonina e fame emotiva: la neurobiologia dimenticata dei DCA

Intestino, serotonina e fame emotiva: la neurobiologia dimenticata dei DCA

Intestino e fame emotiva. Il ruolo della serotonina nella neurobiologia dimenticata dei DCAImage ©: Kellepics

Voglio parlarvi del rapporto che esiste tra intestino, serotonina e fame emotiva. Quando pensiamo ai disturbi del comportamento alimentare (DCA) – anoressia, bulimia, binge eating – ci viene spontaneo guardare verso lo specchio (ahimè) o, al massimo, verso lo psicologo. Ma pochi sanno che c’è un protagonista silenzioso e viscerale che lavora dietro le quinte: l’intestino. Sì, proprio lui. Quello che chiamiamo simpaticamente “secondo cervello” e che, ironicamente, sembra spesso avere più voce in capitolo del primo.

L’asse intestino-cervello è una vera e propria autostrada bidirezionale fatta di nervi, ormoni, segnali immunitari e… pensieri. In questa trafficata superstrada, il nervo vago è il nostro casello principale: trasporta informazioni dalla pancia al cervello e viceversa. E indovinate un po’? Il traffico è pesante, soprattutto quando si tratta di emozioni e appetito.

Non è un caso se mangiamo quando siamo tristi, annoiati o stressati. O se digiuniamo compulsivamente per avere l’illusione di controllo. Sono strategie emotive, sì, ma hanno un fondamento neurobiologico: la nostra pancia e il nostro cervello chiacchierano in continuazione. E spesso, parlano di cibo.

La serotonina è famosa per essere “l’ormone della felicità”. Ma ecco il colpo di scena: circa il 90% della serotonina del nostro corpo è prodotta… nell’intestino! Altro che cervello.

Questa molecola regola non solo l’umore, ma anche l’appetito, la digestione e il ritmo sonno-veglia. Se la serotonina scarseggia – magari per via di un’infiammazione intestinale o una dieta squilibrata – il risultato può essere un cocktail esplosivo di fame emotiva, ansia e sbalzi di umore. Una combo perfetta per far partire il circolo vizioso dei DCA.

A far girare la ruota di questo circo neurochimico ci pensa il microbiota intestinale: un esercito di batteri (buoni, ma anche meno buoni) che vive nell’intestino e influenza tutto, ma proprio tutto. Compresa la produzione di serotonina.

I nostri batteri intestinali sono dei piccoli biochimici: fermentano fibre, producono acidi grassi a catena corta, modulano l’infiammazione e – sorpresa sorpresa – parlano col cervello. Se il microbiota è in disbiosi, ovvero sbilanciato, può aumentare la vulnerabilità a disturbi come depressione, ansia e, ovviamente, comportamenti alimentari disfunzionali.

La fame emotiva non è un capriccio, né una semplice “mancanza di volontà”. È una risposta neurobiologica a uno squilibrio del sistema di regolazione dell’appetito, spesso legato a emozioni represse, traumi e… squilibri intestinali.

Ecco perché, accanto alla psicoterapia e alla nutrizione, oggi si guarda sempre più alla salute intestinale come chiave per comprendere (e trattare) i DCA. Curare l’intestino, ripristinare un microbiota sano, ridurre l’infiammazione e migliorare la serotonina endogena sono strategie terapeutiche promettenti. E magari, chissà, potremmo iniziare a sentirci meglio… di pancia.

Forse non sarà romantico, ma è scientificamente fondato: il cuore delle emozioni, molto spesso, è la pancia. E se vogliamo davvero capire cosa si cela dietro i disturbi alimentari, dobbiamo smettere di guardare solo la mente e iniziare a dare un’occhiata anche al microbiota. Magari con un po’ di kefir e meno sensi di colpa. Perché, in fondo, siamo quello che mangiamo. Ma anche quello che digeriamo, metabolizziamo… e sentiamo.

La diagnosi di autismo nella donna adulta

La diagnosi di autismo tardivo nella donna

La diagnosi di autismo tardivo nella donnaImage©: Daniel_Nebreda

Oggi vorrei parlarvi della diagnosi di autismo tardivo nella donna dal punto di vista clinico. E vorrei iniziare da un quesito che mi sono spesso sentito porre dalle mie pazienti.

“E se non fossi stata solo timida, ansiosa o troppo sensibile?”
È una domanda che tante donne ormai adulte portano in seduta. Alcune hanno passato anni con diagnosi parziali quali: disturbi alimentari, ansia sociale, depressione atipica, disturbo borderline. Altre non hanno mai avuto un’etichetta, solo la sensazione costante di dover sforzarsi per essere “normali”.
E poi succede qualcosa — talvolta la diagnosi di un figlio o magari un post letto per caso sui social — che fa scattare la domanda: “E se fossi autistica anch’io?”

La diagnosi tardiva di autismo nelle donne è una realtà ancora troppo poco esplorata, ma sempre più presente nei contesti clinici. E porta con sé un carico emotivo enorme, fatto di risposte, ma anche di ferite aperte da tempo.

Il motivo per cui molte donne autistiche non ricevono una diagnosi da bambine è semplice e sconcertante: mascherano. Fin da piccole apprendono, spesso inconsapevolmente, a imitare le altre, a copiare comportamenti sociali, a sorridere nei momenti giusti anche se dentro sono esauste o confuse.
In clinica, molte raccontano un’infanzia vissuta nell’ansia di “sbagliare”, un’adolescenza passata a studiare i codici sociali, relazioni complicate, e una vita adulta piena di burnout, crisi di identità, senso di inadeguatezza.

Alcune frasi tipiche che emergono nei colloqui:

“Mi hanno sempre detto che ero troppo sensibile.”

“Mi sentivo diversa ma cercavo di adattarmi.”

“Facevo finta di capire cosa provavano gli altri, ma non era naturale.”

“Ogni situazione sociale mi sfinisce, ma pensavo fosse normale.”

Spesso queste donne sono intelligenti, empatiche, con carriere solide. Ma vivono un malessere interno silenzioso, fatto di iperadattamento e stanchezza cronica.

La diagnosi tardiva di autismo non è una condanna, anzi: per molte è un vero e proprio atto liberatorio.
Finalmente possono rileggere la loro vita con una nuova chiave di lettura. Comprendere che la fatica nelle interazioni non è debolezza, ma una manifestazione della neurodivergenza. Che l’ipersensibilità non è esagerazione. Che l’amore per la routine, il dettaglio o la solitudine non è un difetto da correggere.

La psicoterapia, in questi casi, ha un valore doppio: da un lato offre uno spazio sicuro per elaborare la diagnosi e il passato, dall’altro aiuta a costruire un nuovo equilibrio fatto di autenticità, non più solo adattamento. Si lavora sul senso di colpa, sull’autostima, sull’identità. Si validano i bisogni (anche sensoriali). E soprattutto, si normalizza il diritto a non dover più fingere, allo smascheramento.

Come terapeuti, dobbiamo essere pronti a vedere l’invisibile. Le donne autistiche adulte spesso non corrispondono allo stereotipo dell’autismo. Ma raccontano, se ascoltate con attenzione, una storia coerente e potente. Ecco perché è fondamentale aggiornare i nostri strumenti diagnostici, conoscere le differenze di genere nell’espressione dello spettro, e creare percorsi psicologici che tengano conto della loro esperienza specifica.

Se sei una donna adulta che si è sempre sentita “fuori posto”, o una professionista della salute mentale che vuole capire di più, inizia da qui. L’autismo non è solo silenzio e distacco. Può essere anche empatia estrema, fatica sociale e intelligenza mascherata. Se vuoi approfondire o raccontare la tua esperienza posso aiutarti a esplorarla con rispetto e senza etichette inutili. Scrivimi.

Disturbi alimentari e ADHD: un’associazione complicata

L’associazione tra Disturbi alimentari e ADHD

associazione tra Disturbi alimentari e ADHDImage ©: Geralt

Sapevi che i disturbi alimentari possono associarsi a una ADHD? Se ti sei mai ritrovato a mangiare senza controllo, a sentirti in colpa subito dopo, o a passare ore e ore a pensare al cibo, al peso o al corpo, sappi che non sei solo. E se oltre a questo ti riconosci anche in una mente che salta da un pensiero all’altro, nella fatica a concentrarti, a stare fermo o a gestire le emozioni… beh, potresti trovarti nel mezzo di una combinazione più comune di quanto non si pensi: ADHD e disturbi alimentari.

Questa combinazione si chiama comorbidità – una parola complicata per dire che due difficoltà diverse possono convivere e influenzarsi a vicenda. E quando succede, può diventare davvero dura capire da dove iniziare per stare meglio.

Perché ADHD e disturbi alimentari si associano così spesso? L’ADHD (Disturbo da Deficit di Attenzione e Iperattività) non riguarda solo i bambini iperattivi ma anche gli adulti, spesso senza che nessuno lo abbia mai diagnosticato. Si manifesta con difficoltà a mantenere l’attenzione, gestire il tempo, organizzarsi, ma anche con emozioni intense e reazioni impulsive.

Ora pensa al cibo: è sempre lì, disponibile, veloce, capace di calmare, distrarre o dare una sensazione momentanea di piacere. Per chi ha l’ADHD, il cibo può diventare un modo per regolare emozioni difficili, noia, ansia, frustrazione o anche solo per sentirsi “a posto” per un attimo.

In particolare:

  • il binge eating (le abbuffate compulsive) è molto frequente in chi ha ADHD;
  • anche l’anoressia e la bulimia possono nascondere una fatica più profonda nel gestire emozioni e impulsi;
  • nelle donne, l’ADHD è spesso meno visibile e può essere mascherato da un forte controllo sul corpo e sull’alimentazione.

La buona notizia è che si può lavorare su entrambi, insieme. Forse ti è già capitato di iniziare un percorso per l’ADHD o per i disturbi alimentari, ma senza sentire un vero miglioramento. Questo accade quando si guarda solo a metà della storia (come accade nell’associazione tra autismo e disturbi alimentari).

Per stare davvero meglio, serve un approccio che tenga conto di entrambe le cose. Non è una questione di “etichetta”, ma di capire davvero come funzionano il tuo corpo e la tua mente.

Nel mio lavoro come psicoterapeuta, ho visto che:

  • quando si lavora solo sul cibo senza toccare l’ADHD, il miglioramento è spesso temporaneo;
  • quando si riconosce l’ADHD e si lavora anche su come ti fa vivere le emozioni, il tempo, il corpo e le relazioni, il percorso diventa più profondo e autentico;
  • non sei sbagliato: semplicemente, stai lottando con due difficoltà che si alimentano a vicenda.

Da dove partire? Ecco qualche spunto concreto:

  • Se ti riconosci in quello che hai letto, parlane con uno psicoterapeuta che conosca bene sia l’ADHD che i disturbi alimentari.
  • Scrivi nero su bianco i momenti in cui ti senti fuori controllo col cibo: cosa succede prima, cosa provi dopo?
  • Inizia ad osservare il tuo rapporto con il tempo, con l’attenzione, con il corpo. Non per giudicarti, ma per conoscerti davvero.

E ricorda: chiedere aiuto non significa essere deboli. Significa avere il coraggio di affrontare il proprio dolore in modo nuovo.

In conclusione, ADHD e disturbi alimentari possono essere associati ma non sono una condanna. Sono due modi in cui la tua mente cerca di sopravvivere a un mondo che forse non ti ha capito fino in fondo. Ma oggi puoi iniziare a riscrivere la tua storia – con più consapevolezza, più gentilezza, e finalmente con il supporto giusto.

Disturbi alimentari nei maschi

Disturbi alimentari nei maschi

Disturbi alimentari nei maschiImage ©: Egon Schiele

Parliamo dei disturbi alimentari nei maschi, concentrandoci su stigma, diagnosi mancate e specificità cliniche. Quando si parla di disturbi alimentari, l’immaginario collettivo tende a visualizzare figure femminili: adolescenti o giovani donne che lottano con anoressia, bulimia o binge eating. Ma c’è una realtà nascosta, ancora troppo silenziosa, che riguarda i maschi. I disturbi alimentari non fanno discriminazioni di genere, eppure nei maschi restano spesso invisibili, sottovalutati o fraintesi. Il risultato? Diagnosi tardive, sofferenze silenziose e percorsi terapeutici più complessi.

Per molti ragazzi, ammettere di avere un problema con il cibo significa esporsi a un doppio stigma. Da un lato, quello legato ai disturbi alimentari in sé – ancora erroneamente considerati “malattie da donne” – e dall’altro, quello associato alla mascolinità tossica: l’idea che un vero uomo debba essere forte, autonomo, immune da fragilità emotive. Questo doppio tabù porta a un pericoloso silenzio. Studi recenti stimano che circa il 25% delle persone con disturbi alimentari siano maschi, ma si ritiene che la cifra reale sia molto più alta, a causa delle diagnosi mancate. Molti uomini non chiedono aiuto, oppure i professionisti stessi non colgono i segnali, influenzati da bias culturali inconsapevoli.

Le manifestazioni dei disturbi alimentari nei maschi possono differire da quelle femminili, rendendo ancora più difficile individuarle. Ad esempio, nei ragazzi è più frequente l’ortoressia (l’ossessione per il cibo sano) o la vigoressia, ovvero la fissazione sullo sviluppo muscolare, spesso accompagnata da diete estreme e allenamenti compulsivi. Anche il binge eating (abbuffate compulsive) è comune nei maschi, spesso legato a emozioni represse, ansia o stress, ma difficilmente raccontato. Meno frequente è l’anoressia “classica”, ma quando si presenta, tende a essere più grave e cronicizzata, proprio perché riconosciuta in ritardo.

Un altro elemento distintivo è che i maschi spesso non desiderano diventare “magri”, ma più spesso “definiti”, “forti”, “prestanti”. Questo modifica il tipo di comportamento alimentare, pur mantenendo una matrice psicopatologica simile: controllo, bassa autostima, perfezionismo, bisogno di approvazione. Anche l’ambiente gioca un ruolo chiave. I media e i social hanno contribuito a creare un ideale maschile sempre più irrealistico: fisici scolpiti, zero grasso, addominali perfetti. Questa pressione estetica non è più un’esclusiva femminile. Sempre più ragazzi si confrontano con standard inarrivabili e interiorizzano l’idea che il proprio valore dipenda dall’aspetto fisico.

Palestra, diete iperproteiche, integratori, uso di steroidi: tutto può rientrare in un quadro di disordine alimentare, se motivato da ansia, compulsione e distorsione dell’immagine corporea. Ma chi lo direbbe? Chi oserebbe definirlo un disturbo? Ecco perché il primo passo per cambiare le cose è parlarne. Dare spazio al vissuto maschile nei disturbi alimentari, raccontarlo senza vergogna, è un atto rivoluzionario. I professionisti della salute mentale devono essere formati per riconoscere anche le forme meno “classiche” del disturbo e ascoltare senza pregiudizi.

La diagnosi precoce dei disturbi alimentari nei maschi salva vite. E soprattutto, restituisce dignità a chi, fino a ieri, si sentiva fuori posto persino nella sofferenza. Rompere il silenzio sui disturbi alimentari maschili non è solo una questione clinica, ma culturale. È un invito a ridefinire cosa significa essere uomo, anche nella vulnerabilità.

Il corpo grida ciò che la mente non sa dire

Il corpo grida ciò che la mente non sa dire

Il corpo grida ciò che la mente non sa direImage©: StockSnap

Il corpo grida ciò che la mente non sa dire, questa è l’essenza dei disturbi alimentari. Mangiare non è solo nutrirsi. È relazione, identità, controllo, conforto, ribellione. È una danza sottile tra ciò che sentiamo e ciò che pensiamo. I disturbi alimentari nascono quando questa danza si spezza, quando il dialogo tra il nostro sentire (femminile) e il nostro raziocinio (maschile) si trasforma in conflitto.

Non sono solo malattie del corpo, anche se il corpo ne porta i segni visibili. Sono ferite dell’anima, mappe emozionali che non abbiamo imparato a leggere. L’anoressia, la bulimia, il binge eating non sono capricci, né mode. Sono strategie di sopravvivenza, tentativi disperati (e creativi, per quanto distruttivi) di trovare un equilibrio quando tutto dentro vacilla.

Il femminile in noi sente. Ha bisogno di ascolto, di accoglienza, di tempo. Ma in una società che premia la performance e l’autocontrollo, impariamo presto a zittire le emozioni. Il maschile, con la sua logica e la sua spinta a “funzionare”, prende il sopravvento: ci dice che dobbiamo essere forti, belli, efficienti. Che dobbiamo controllare tutto, anche il corpo, anche la fame.

E così, ciò che sentiamo diventa ingombrante. La fame emotiva si confonde con quella fisica. Il cibo diventa l’unico linguaggio possibile per esprimere un dolore che non trova parole. Si mangia troppo per riempire un vuoto. Si digiuna per sentire di avere il potere. Si vomita per espellere un senso di colpa che non ci appartiene.

In un disturbo alimentare, il corpo diventa campo di battaglia. Lo si punisce, lo si modella, lo si odia, lo si vuole cancellare. Ma quel corpo siamo noi. E quando lo attacchiamo, in realtà stiamo attaccando una parte di noi che chiede solo di essere riconosciuta. Il corpo parla quando la mente tace. E dice sempre la verità.

Spesso, dietro a un disturbo alimentare, c’è un trauma, un vuoto relazionale, un’identità fragile, un dolore antico. Ma c’è anche una grande sensibilità, una ricerca profonda di senso, un bisogno autentico di connessione. Il problema non è il cibo. Il problema è tutto ciò che il cibo cerca di nascondere, di anestetizzare, di sistemare.

Guarire da un disturbo alimentare non significa “tornare a mangiare normalmente”. Significa ritrovare un’alleanza con se stessi. Riunire il maschile e il femminile interiori. Dare spazio al sentire, senza perdere il pensiero. Ritrovare fiducia nel corpo, senza paura di ascoltarlo.

È un processo lento, imperfetto, spesso doloroso. Ma è anche un atto di profonda libertà. Non si tratta solo di guarire, ma di rinascere. Di dire: non voglio più combattermi. Voglio capirmi. Voglio accogliermi.

Se stai vivendo un disturbo alimentare, o se ami qualcuno che lo sta vivendo, sappi questo: non sei sbagliato. Il tuo dolore ha un senso, anche se adesso ti sembra incomprensibile. E non sei solo. Ci sono professionisti, reti, storie che possono aiutarti a fare pace con quel corpo che oggi ti fa paura.

Il corpo grida ciò che la mente non sa dire. Perché il corpo non è il problema. È il messaggero. E ascoltarlo può essere il primo passo per tornare a casa.

Legame tra autismo e disturbi alimentari

Legame tra autismo e disturbi alimentariImage©: Mirush_fotografka

Esiste un legame che pochi conoscono tra autismo e disturbi alimentari. Negli ultimi anni, l’interesse scientifico verso la relazione tra disturbi dello spettro autistico (ASD) e disturbi del comportamento alimentare (DCA) è cresciuto significativamente. Sebbene queste due condizioni possano sembrare distinte a prima vista, emergono sempre più evidenze di una sovrapposizione clinica, comportamentale e neurobiologica che merita attenzione, sia in ambito clinico sia nella vita quotidiana delle persone coinvolte.

L’autismo è un disturbo del neurosviluppo caratterizzato da difficoltà nella comunicazione sociale e dalla presenza di comportamenti ripetitivi e interessi ristretti. In molti casi, queste caratteristiche possono influenzare in modo marcato il rapporto con il cibo.

Ad esempio, l’ipersensibilità sensoriale – molto comune nelle persone autistiche – può rendere alcune consistenze, odori o sapori intollerabili. Non è raro che bambini e adulti nello spettro rifiutino interi gruppi alimentari o mangino solo cibi di un colore o una forma specifica. Questo comportamento, spesso definito come “alimentazione selettiva”, può risultare in carenze nutrizionali e compromettere la crescita o la salute generale.

Inoltre, le rigidità cognitive e comportamentali tipiche dell’autismo possono portare a rituali alimentari molto rigidi o alla necessità di mantenere una routine precisa durante i pasti. Qualsiasi variazione può causare ansia o rifiuto del cibo.

Sebbene l’alimentazione selettiva sia comune nei soggetti autistici, non sempre configura un vero e proprio disturbo del comportamento alimentare secondo i criteri diagnostici. Tuttavia, in alcuni casi, i comportamenti alimentari problematici si intensificano fino a rientrare in diagnosi cliniche come:

  • Anoressia nervosa: studi recenti suggeriscono che una percentuale significativa di pazienti con anoressia, soprattutto donne, mostra tratti autistici, anche in assenza di una diagnosi formale. La rigidità cognitiva, l’alessitimia (difficoltà a riconoscere ed esprimere le emozioni) e la tendenza al perfezionismo possono contribuire allo sviluppo e al mantenimento del disturbo.

  • Disturbo evitante/restrittivo dell’assunzione di cibo (ARFID): questa condizione, inclusa nel DSM-5, è particolarmente rilevante nel contesto dell’autismo. L’ARFID si manifesta con un’eccessiva restrizione alimentare non motivata da paura di ingrassare, ma da fattori sensoriali, traumi legati al cibo o mancanza di interesse per l’alimentazione

Il legame tra autismo e disturbi alimentari esiste, e non è unidirezionale. Se da un lato l’autismo può predisporre a sviluppare un disturbo alimentare, dall’altro l’esperienza di un DCA in adolescenza o età adulta può mascherare – o rendere evidente – tratti autistici precedentemente non diagnosticati.

Inoltre, molte persone autistiche, in particolare donne, sono spesso diagnosticate tardivamente proprio perché i loro sintomi vengono interpretati erroneamente come manifestazioni di ansia, depressione o disturbi alimentari. Questo fenomeno, noto come camouflaging (mascheramento), può ritardare l’accesso a interventi adeguati.

Comprendere l’intreccio che esiste tra autismo e disturbi alimentari è fondamentale per offrire un supporto clinico adeguato. I trattamenti standard per i DCA, infatti, potrebbero non essere efficaci – o addirittura controproducenti – per una persona affetta da un disturbo dello spettro autistico, se non tengono conto delle sue specificità sensoriali, comunicative e cognitive.

È quindi necessario un approccio multidisciplinare e individualizzato, che coinvolga medici, nutrizionisti, psicologi e terapisti occupazionali. L’obiettivo non è solo “normalizzare” l’alimentazione, ma anche promuovere il benessere globale della persona, rispettando le sue modalità uniche di vivere e percepire il mondo.

Il legame tra autismo e disturbi del comportamento alimentare è complesso e ancora in fase di esplorazione, ma riconoscerlo è un primo passo fondamentale per migliorare la diagnosi, il trattamento e la qualità della vita di chi si trova a vivere questa doppia sfida. La sensibilizzazione, la ricerca e una maggiore formazione degli operatori sanitari possono fare davvero la differenza.


disturbi alimentari

Nove verità sui disturbi alimentari

Image ©: Geralt

I disturbi alimentari non sono una questione di vanità o di semplice forza di volontà. Sono condizioni complesse, radicate in un intreccio di fattori biologici, psicologici e sociali. Eppure, nonostante la crescente consapevolezza, molti miti continuano a oscurare la realtà. Oggi voglio raccontarti nove verità sui disturbi alimentari che troppo spesso vengono ignorate.

  1. Non si tratta solo di cibo.
    Dietro l’ossessione per il peso o le calorie si nasconde qualcosa di più profondo: ansia, bisogno di controllo, bassa autostima, dolore emotivo. Il cibo diventa solo lo strumento attraverso cui si esprimono queste fragilità. E non si tratta di scelte, ma di malattie con seri substrati biologici.

  2. Possono colpire chiunque.
    Donne, uomini, adolescenti, adulti, persone di ogni etnia e background: i disturbi alimentari non hanno un volto unico. Pensare che riguardino solo giovani ragazze di livello socioeconomico medio-alto è riduttivo e pericoloso.

  3. Non è necessario essere sottopeso per avere un disturbo alimentare.
    L’immagine dell’anoressia come sinonimo di magrezza estrema è solo una parte della realtà. Molti disturbi, come la bulimia o il binge eating, possono manifestarsi in persone di peso normale o superiore. Il peso non racconta mai tutta la storia.

  4. Sono tra le malattie psichiatriche più letali.
    L’anoressia nervosa ha uno dei più alti tassi di mortalità tra i disturbi mentali, sia per complicanze fisiche che per suicidio. Questo dato ci ricorda l’urgenza di trattarli come problemi seri, non come capricci adolescenziali.

  5. Geni e ambiente giocano entrambi un ruolo importante nello sviluppo di queste malattie.
    La cosiddetta predisposizione genetica da sola non basta a predire chi svilupperà o meno il disturbo. Inoltre molti casi di DCA sono sporadici in quanto non vi sono altri membri della famiglia che hanno mai sofferto di un disturbo similare. Gli studi sui gemelli hanno dimostrato che a parità di genetica le influenze ambientali fanno la differenza nello sviluppare o meno una patologia, e, viceversa, si è visto che a parità di sollecitazioni ambientali soltanto una minoranza degli individui esposti svilupperà dei sintomi.

  6. I social media possono essere un’arma a doppio taglio.
    Se da un lato esistono community di supporto e sensibilizzazione, dall’altro le immagini idealizzate, i “body check” e le mode alimentari estreme propagandate da sedicenti influencers possono alimentare insicurezze e comportamenti disfunzionali. La consapevolezza digitale è fondamentale.

  7. Non sempre si vede dall’esterno.
    Molte persone convivono con un disturbo alimentare senza che il loro corpo rifletta i segni visibili. Un sorriso, un’apparente normalità, possono nascondere una sofferenza invisibile. Non sottovalutiamo mai chi ci sta accanto.

  8. Le famiglie non sono da incolpare, ma da coinvolgere.
    Spesso si tende a puntare il dito contro i genitori o l’ambiente familiare. Sebbene i contesti relazionali abbiano un ruolo, i disturbi alimentari sono multifattoriali. Coinvolgere la famiglia nel percorso di cura è una risorsa preziosa, non una colpa.

  9. La guarigione è possibile, ma non è lineare.
    Chi è sulla strada del recupero può inciampare, ricadere, riprendere fiato e rialzarsi. È un viaggio fatto di alti e bassi, che merita rispetto, pazienza e incoraggiamento. La speranza non è mai vana.

I disturbi alimentari parlano di dolore, ma anche di una profonda richiesta d’aiuto. Ascoltare, comprendere, informarsi sono i primi passi per abbattere lo stigma e aprire la strada al sostegno. Se tu o qualcuno che conosci sta lottando, sappi che chiedere aiuto è un atto di forza, non di debolezza. Queste nove verità derivano da ciò che si è scoperto in decenni di studio su queste patologie e sono da considerarsi informazioni basate sulle evidenze. Diffondile tra le persone che ti sono care.