Disturbi alimentari e ADHD: un’associazione complicata

Disturbi alimentari e ADHD: un’associazione complicata

Disturbi alimentari e ADHD: un’associazione complicataSapevi che i disturbi alimentari possono associarsi a una ADHD? Se ti sei mai ritrovato a mangiare senza controllo, a sentirti in colpa subito dopo, o a passare ore e ore a pensare al cibo, al peso o al corpo, sappi che non sei solo. E se oltre a questo ti riconosci anche in una mente che salta da un pensiero all’altro, nella fatica a concentrarti, a stare fermo o a gestire le emozioni… beh, potresti trovarti nel mezzo di una combinazione più comune di quanto non si pensi: ADHD e disturbi alimentari.

Questa combinazione si chiama comorbidità – una parola complicata per dire che due difficoltà diverse possono convivere e influenzarsi a vicenda. E quando succede, può diventare davvero dura capire da dove iniziare per stare meglio.

Perché ADHD e disturbi alimentari si associano così spesso? L’ADHD (Disturbo da Deficit di Attenzione e Iperattività) non riguarda solo i bambini iperattivi ma anche gli adulti, spesso senza che nessuno lo abbia mai diagnosticato. Si manifesta con difficoltà a mantenere l’attenzione, gestire il tempo, organizzarsi, ma anche con emozioni intense e reazioni impulsive.

Ora pensa al cibo: è sempre lì, disponibile, veloce, capace di calmare, distrarre o dare una sensazione momentanea di piacere. Per chi ha l’ADHD, il cibo può diventare un modo per regolare emozioni difficili, noia, ansia, frustrazione o anche solo per sentirsi “a posto” per un attimo.

In particolare:

  • il binge eating (le abbuffate compulsive) è molto frequente in chi ha ADHD;
  • anche l’anoressia e la bulimia possono nascondere una fatica più profonda nel gestire emozioni e impulsi;
  • nelle donne, l’ADHD è spesso meno visibile e può essere mascherato da un forte controllo sul corpo e sull’alimentazione.

La buona notizia è che si può lavorare su entrambi, insieme. Forse ti è già capitato di iniziare un percorso per l’ADHD o per i disturbi alimentari, ma senza sentire un vero miglioramento. Questo accade quando si guarda solo a metà della storia (come accade nell’associazione tra autismo e disturbi alimentari).

Per stare davvero meglio, serve un approccio che tenga conto di entrambe le cose. Non è una questione di “etichetta”, ma di capire davvero come funzionano il tuo corpo e la tua mente.

Nel mio lavoro come psicoterapeuta, ho visto che:

  • quando si lavora solo sul cibo senza toccare l’ADHD, il miglioramento è spesso temporaneo;
  • quando si riconosce l’ADHD e si lavora anche su come ti fa vivere le emozioni, il tempo, il corpo e le relazioni, il percorso diventa più profondo e autentico;
  • non sei sbagliato: semplicemente, stai lottando con due difficoltà che si alimentano a vicenda.

Da dove partire? Ecco qualche spunto concreto:

  • Se ti riconosci in quello che hai letto, parlane con uno psicoterapeuta che conosca bene sia l’ADHD che i disturbi alimentari.
  • Scrivi nero su bianco i momenti in cui ti senti fuori controllo col cibo: cosa succede prima, cosa provi dopo?
  • Inizia ad osservare il tuo rapporto con il tempo, con l’attenzione, con il corpo. Non per giudicarti, ma per conoscerti davvero.

E ricorda: chiedere aiuto non significa essere deboli. Significa avere il coraggio di affrontare il proprio dolore in modo nuovo.

In conclusione, ADHD e disturbi alimentari possono essere associati ma non sono una condanna. Sono due modi in cui la tua mente cerca di sopravvivere a un mondo che forse non ti ha capito fino in fondo. Ma oggi puoi iniziare a riscrivere la tua storia – con più consapevolezza, più gentilezza, e finalmente con il supporto giusto.

Disturbi alimentari nei maschi

Disturbi alimentari nei maschi

Disturbi alimentari nei maschiParliamo dei disturbi alimentari nei maschi, concentrandoci su stigma, diagnosi mancate e specificità cliniche. Quando si parla di disturbi alimentari, l’immaginario collettivo tende a visualizzare figure femminili: adolescenti o giovani donne che lottano con anoressia, bulimia o binge eating. Ma c’è una realtà nascosta, ancora troppo silenziosa, che riguarda i maschi. I disturbi alimentari non fanno discriminazioni di genere, eppure nei maschi restano spesso invisibili, sottovalutati o fraintesi. Il risultato? Diagnosi tardive, sofferenze silenziose e percorsi terapeutici più complessi.

Per molti ragazzi, ammettere di avere un problema con il cibo significa esporsi a un doppio stigma. Da un lato, quello legato ai disturbi alimentari in sé – ancora erroneamente considerati “malattie da donne” – e dall’altro, quello associato alla mascolinità tossica: l’idea che un vero uomo debba essere forte, autonomo, immune da fragilità emotive. Questo doppio tabù porta a un pericoloso silenzio. Studi recenti stimano che circa il 25% delle persone con disturbi alimentari siano maschi, ma si ritiene che la cifra reale sia molto più alta, a causa delle diagnosi mancate. Molti uomini non chiedono aiuto, oppure i professionisti stessi non colgono i segnali, influenzati da bias culturali inconsapevoli.

Le manifestazioni dei disturbi alimentari nei maschi possono differire da quelle femminili, rendendo ancora più difficile individuarle. Ad esempio, nei ragazzi è più frequente l’ortoressia (l’ossessione per il cibo sano) o la vigoressia, ovvero la fissazione sullo sviluppo muscolare, spesso accompagnata da diete estreme e allenamenti compulsivi. Anche il binge eating (abbuffate compulsive) è comune nei maschi, spesso legato a emozioni represse, ansia o stress, ma difficilmente raccontato. Meno frequente è l’anoressia “classica”, ma quando si presenta, tende a essere più grave e cronicizzata, proprio perché riconosciuta in ritardo.

Un altro elemento distintivo è che i maschi spesso non desiderano diventare “magri”, ma più spesso “definiti”, “forti”, “prestanti”. Questo modifica il tipo di comportamento alimentare, pur mantenendo una matrice psicopatologica simile: controllo, bassa autostima, perfezionismo, bisogno di approvazione. Anche l’ambiente gioca un ruolo chiave. I media e i social hanno contribuito a creare un ideale maschile sempre più irrealistico: fisici scolpiti, zero grasso, addominali perfetti. Questa pressione estetica non è più un’esclusiva femminile. Sempre più ragazzi si confrontano con standard inarrivabili e interiorizzano l’idea che il proprio valore dipenda dall’aspetto fisico.

Palestra, diete iperproteiche, integratori, uso di steroidi: tutto può rientrare in un quadro di disordine alimentare, se motivato da ansia, compulsione e distorsione dell’immagine corporea. Ma chi lo direbbe? Chi oserebbe definirlo un disturbo? Ecco perché il primo passo per cambiare le cose è parlarne. Dare spazio al vissuto maschile nei disturbi alimentari, raccontarlo senza vergogna, è un atto rivoluzionario. I professionisti della salute mentale devono essere formati per riconoscere anche le forme meno “classiche” del disturbo e ascoltare senza pregiudizi.

La diagnosi precoce dei disturbi alimentari nei maschi salva vite. E soprattutto, restituisce dignità a chi, fino a ieri, si sentiva fuori posto persino nella sofferenza. Rompere il silenzio sui disturbi alimentari maschili non è solo una questione clinica, ma culturale. È un invito a ridefinire cosa significa essere uomo, anche nella vulnerabilità.

Il corpo grida ciò che la mente non sa dire

Il corpo grida ciò che la mente non sa dire

Il corpo grida ciò che la mente non sa direImage©: StockSnap

Il corpo grida ciò che la mente non sa dire, questa è l’essenza dei disturbi alimentari. Mangiare non è solo nutrirsi. È relazione, identità, controllo, conforto, ribellione. È una danza sottile tra ciò che sentiamo e ciò che pensiamo. I disturbi alimentari nascono quando questa danza si spezza, quando il dialogo tra il nostro sentire (femminile) e il nostro raziocinio (maschile) si trasforma in conflitto.

Non sono solo malattie del corpo, anche se il corpo ne porta i segni visibili. Sono ferite dell’anima, mappe emozionali che non abbiamo imparato a leggere. L’anoressia, la bulimia, il binge eating non sono capricci, né mode. Sono strategie di sopravvivenza, tentativi disperati (e creativi, per quanto distruttivi) di trovare un equilibrio quando tutto dentro vacilla.

Il femminile in noi sente. Ha bisogno di ascolto, di accoglienza, di tempo. Ma in una società che premia la performance e l’autocontrollo, impariamo presto a zittire le emozioni. Il maschile, con la sua logica e la sua spinta a “funzionare”, prende il sopravvento: ci dice che dobbiamo essere forti, belli, efficienti. Che dobbiamo controllare tutto, anche il corpo, anche la fame.

E così, ciò che sentiamo diventa ingombrante. La fame emotiva si confonde con quella fisica. Il cibo diventa l’unico linguaggio possibile per esprimere un dolore che non trova parole. Si mangia troppo per riempire un vuoto. Si digiuna per sentire di avere il potere. Si vomita per espellere un senso di colpa che non ci appartiene.

In un disturbo alimentare, il corpo diventa campo di battaglia. Lo si punisce, lo si modella, lo si odia, lo si vuole cancellare. Ma quel corpo siamo noi. E quando lo attacchiamo, in realtà stiamo attaccando una parte di noi che chiede solo di essere riconosciuta. Il corpo parla quando la mente tace. E dice sempre la verità.

Spesso, dietro a un disturbo alimentare, c’è un trauma, un vuoto relazionale, un’identità fragile, un dolore antico. Ma c’è anche una grande sensibilità, una ricerca profonda di senso, un bisogno autentico di connessione. Il problema non è il cibo. Il problema è tutto ciò che il cibo cerca di nascondere, di anestetizzare, di sistemare.

Guarire da un disturbo alimentare non significa “tornare a mangiare normalmente”. Significa ritrovare un’alleanza con se stessi. Riunire il maschile e il femminile interiori. Dare spazio al sentire, senza perdere il pensiero. Ritrovare fiducia nel corpo, senza paura di ascoltarlo.

È un processo lento, imperfetto, spesso doloroso. Ma è anche un atto di profonda libertà. Non si tratta solo di guarire, ma di rinascere. Di dire: non voglio più combattermi. Voglio capirmi. Voglio accogliermi.

Se stai vivendo un disturbo alimentare, o se ami qualcuno che lo sta vivendo, sappi questo: non sei sbagliato. Il tuo dolore ha un senso, anche se adesso ti sembra incomprensibile. E non sei solo. Ci sono professionisti, reti, storie che possono aiutarti a fare pace con quel corpo che oggi ti fa paura.

Il corpo grida ciò che la mente non sa dire. Perché il corpo non è il problema. È il messaggero. E ascoltarlo può essere il primo passo per tornare a casa.

Esiste un legame tra autismo e disturbi alimentari

Image©: Mirush_fotografka

Esiste un legame che pochi conoscono tra autismo e disturbi alimentari. Negli ultimi anni, l’interesse scientifico verso la relazione tra disturbi dello spettro autistico (ASD) e disturbi del comportamento alimentare (DCA) è cresciuto significativamente. Sebbene queste due condizioni possano sembrare distinte a prima vista, emergono sempre più evidenze di una sovrapposizione clinica, comportamentale e neurobiologica che merita attenzione, sia in ambito clinico sia nella vita quotidiana delle persone coinvolte.

L’autismo è un disturbo del neurosviluppo caratterizzato da difficoltà nella comunicazione sociale e dalla presenza di comportamenti ripetitivi e interessi ristretti. In molti casi, queste caratteristiche possono influenzare in modo marcato il rapporto con il cibo.

Ad esempio, l’ipersensibilità sensoriale – molto comune nelle persone autistiche – può rendere alcune consistenze, odori o sapori intollerabili. Non è raro che bambini e adulti nello spettro rifiutino interi gruppi alimentari o mangino solo cibi di un colore o una forma specifica. Questo comportamento, spesso definito come “alimentazione selettiva”, può risultare in carenze nutrizionali e compromettere la crescita o la salute generale.

Inoltre, le rigidità cognitive e comportamentali tipiche dell’autismo possono portare a rituali alimentari molto rigidi o alla necessità di mantenere una routine precisa durante i pasti. Qualsiasi variazione può causare ansia o rifiuto del cibo.

Sebbene l’alimentazione selettiva sia comune nei soggetti autistici, non sempre configura un vero e proprio disturbo del comportamento alimentare secondo i criteri diagnostici. Tuttavia, in alcuni casi, i comportamenti alimentari problematici si intensificano fino a rientrare in diagnosi cliniche come:

  • Anoressia nervosa: studi recenti suggeriscono che una percentuale significativa di pazienti con anoressia, soprattutto donne, mostra tratti autistici, anche in assenza di una diagnosi formale. La rigidità cognitiva, l’alessitimia (difficoltà a riconoscere ed esprimere le emozioni) e la tendenza al perfezionismo possono contribuire allo sviluppo e al mantenimento del disturbo.

  • Disturbo evitante/restrittivo dell’assunzione di cibo (ARFID): questa condizione, inclusa nel DSM-5, è particolarmente rilevante nel contesto dell’autismo. L’ARFID si manifesta con un’eccessiva restrizione alimentare non motivata da paura di ingrassare, ma da fattori sensoriali, traumi legati al cibo o mancanza di interesse per l’alimentazione

Il legame tra autismo e disturbi alimentari esiste, e non è unidirezionale. Se da un lato l’autismo può predisporre a sviluppare un disturbo alimentare, dall’altro l’esperienza di un DCA in adolescenza o età adulta può mascherare – o rendere evidente – tratti autistici precedentemente non diagnosticati.

Inoltre, molte persone autistiche, in particolare donne, sono spesso diagnosticate tardivamente proprio perché i loro sintomi vengono interpretati erroneamente come manifestazioni di ansia, depressione o disturbi alimentari. Questo fenomeno, noto come camouflaging (mascheramento), può ritardare l’accesso a interventi adeguati.

Comprendere l’intreccio che esiste tra autismo e disturbi alimentari è fondamentale per offrire un supporto clinico adeguato. I trattamenti standard per i DCA, infatti, potrebbero non essere efficaci – o addirittura controproducenti – per una persona affetta da un disturbo dello spettro autistico, se non tengono conto delle sue specificità sensoriali, comunicative e cognitive.

È quindi necessario un approccio multidisciplinare e individualizzato, che coinvolga medici, nutrizionisti, psicologi e terapisti occupazionali. L’obiettivo non è solo “normalizzare” l’alimentazione, ma anche promuovere il benessere globale della persona, rispettando le sue modalità uniche di vivere e percepire il mondo.

Il legame tra autismo e disturbi del comportamento alimentare è complesso e ancora in fase di esplorazione, ma riconoscerlo è un primo passo fondamentale per migliorare la diagnosi, il trattamento e la qualità della vita di chi si trova a vivere questa doppia sfida. La sensibilizzazione, la ricerca e una maggiore formazione degli operatori sanitari possono fare davvero la differenza.


disturbi alimentari

Nove verità sui disturbi alimentari

Image ©: Geralt

I disturbi alimentari non sono una questione di vanità o di semplice forza di volontà. Sono condizioni complesse, radicate in un intreccio di fattori biologici, psicologici e sociali. Eppure, nonostante la crescente consapevolezza, molti miti continuano a oscurare la realtà. Oggi voglio raccontarti nove verità sui disturbi alimentari che troppo spesso vengono ignorate.

  1. Non si tratta solo di cibo.
    Dietro l’ossessione per il peso o le calorie si nasconde qualcosa di più profondo: ansia, bisogno di controllo, bassa autostima, dolore emotivo. Il cibo diventa solo lo strumento attraverso cui si esprimono queste fragilità. E non si tratta di scelte, ma di malattie con seri substrati biologici.

  2. Possono colpire chiunque.
    Donne, uomini, adolescenti, adulti, persone di ogni etnia e background: i disturbi alimentari non hanno un volto unico. Pensare che riguardino solo giovani ragazze di livello socioeconomico medio-alto è riduttivo e pericoloso.

  3. Non è necessario essere sottopeso per avere un disturbo alimentare.
    L’immagine dell’anoressia come sinonimo di magrezza estrema è solo una parte della realtà. Molti disturbi, come la bulimia o il binge eating, possono manifestarsi in persone di peso normale o superiore. Il peso non racconta mai tutta la storia.

  4. Sono tra le malattie psichiatriche più letali.
    L’anoressia nervosa ha uno dei più alti tassi di mortalità tra i disturbi mentali, sia per complicanze fisiche che per suicidio. Questo dato ci ricorda l’urgenza di trattarli come problemi seri, non come capricci adolescenziali.

  5. Geni e ambiente giocano entrambi un ruolo importante nello sviluppo di queste malattie.
    La cosiddetta predisposizione genetica da sola non basta a predire chi svilupperà o meno il disturbo. Inoltre molti casi di DCA sono sporadici in quanto non vi sono altri membri della famiglia che hanno mai sofferto di un disturbo similare. Gli studi sui gemelli hanno dimostrato che a parità di genetica le influenze ambientali fanno la differenza nello sviluppare o meno una patologia, e, viceversa, si è visto che a parità di sollecitazioni ambientali soltanto una minoranza degli individui esposti svilupperà dei sintomi.

  6. I social media possono essere un’arma a doppio taglio.
    Se da un lato esistono community di supporto e sensibilizzazione, dall’altro le immagini idealizzate, i “body check” e le mode alimentari estreme propagandate da sedicenti influencers possono alimentare insicurezze e comportamenti disfunzionali. La consapevolezza digitale è fondamentale.

  7. Non sempre si vede dall’esterno.
    Molte persone convivono con un disturbo alimentare senza che il loro corpo rifletta i segni visibili. Un sorriso, un’apparente normalità, possono nascondere una sofferenza invisibile. Non sottovalutiamo mai chi ci sta accanto.

  8. Le famiglie non sono da incolpare, ma da coinvolgere.
    Spesso si tende a puntare il dito contro i genitori o l’ambiente familiare. Sebbene i contesti relazionali abbiano un ruolo, i disturbi alimentari sono multifattoriali. Coinvolgere la famiglia nel percorso di cura è una risorsa preziosa, non una colpa.

  9. La guarigione è possibile, ma non è lineare.
    Chi è sulla strada del recupero può inciampare, ricadere, riprendere fiato e rialzarsi. È un viaggio fatto di alti e bassi, che merita rispetto, pazienza e incoraggiamento. La speranza non è mai vana.

I disturbi alimentari parlano di dolore, ma anche di una profonda richiesta d’aiuto. Ascoltare, comprendere, informarsi sono i primi passi per abbattere lo stigma e aprire la strada al sostegno. Se tu o qualcuno che conosci sta lottando, sappi che chiedere aiuto è un atto di forza, non di debolezza. Queste nove verità derivano da ciò che si è scoperto in decenni di studio su queste patologie e sono da considerarsi informazioni basate sulle evidenze. Diffondile tra le persone che ti sono care.

zolpidem

Zolpidem e abbuffate notturne

Image ©: Mizianitka
I disturbi alimentari sono spesso associati alla luce del giorno, ai pasti saltati o alle abbuffate nascoste. Ma esiste una realtà ancora poco conosciuta che si consuma nel silenzio della notte: il night eating, ovvero le abbuffate notturne. E, quando questo fenomeno si intreccia con l’uso di farmaci come lo zolpidem, i rischi aumentano esponenzialmente.

Lo zolpidem è uno dei sonniferi più prescritti al mondo. Utilizzato per combattere l’insonnia, agisce rapidamente inducendo il sonno, ma può avere effetti collaterali inquietanti, specialmente se usato a lungo termine o senza il controllo medico adeguato. Tra questi effetti, il più allarmante è il comportamento automatico notturno: camminare, abbuffarsi, e perfino guidare mentre si è in uno stato di semi-incoscienza. In particolare, il legame tra zolpidem e abbuffate notturne è poco conosciuto in Italia.

Nel caso delle abbuffate notturne, infatti, il confine tra bisogno fisiologico e comportamento patologico si fa più sfumato. Le persone che soffrono di Night Eating Syndrome (NES) avvertono un impulso incontrollabile a mangiare durante la notte, spesso senza nemmeno rendersene conto. Quando questa sindrome è scatenata dall’assunzione di zolpidem, la situazione si complica: la persona può consumare grandi quantità di cibo in stato di amnesia, svegliandosi il giorno dopo senza averne alcun ricordo, solo con tracce evidenti — confezioni vuote, cucina in disordine, o sensazioni di nausea e vergogna. Il rischio aumenta nel sesso femminile, quando allo zolpidem si associano altri psicofarmaci quali antidepressivi o alcuni neurolettici e quando viene assunto a dosaggi superiori a 10 mg.

Perché si crea questa combinazione esplosiva? Lo zolpidem altera il ciclo sonno-veglia e riduce le barriere cognitive che normalmente ci impediscono di agire sugli impulsi più automatici. Chi già convive con disturbi del comportamento alimentare o con una fragile regolazione emotiva è particolarmente vulnerabile. Il bisogno emotivo di cibo, normalmente “controllato” durante il giorno, può esplodere senza freni nelle ore notturne, trasformando il sonno in un incubo di cui spesso non si ha memoria.

Le conseguenze? Oltre all’aumento di peso non controllato, chi vive episodi di night eating sotto l’effetto di zolpidem può sviluppare problemi metabolici seri, aggravare la propria autostima già compromessa, e alimentare un ciclo di ansia, colpa e restrizione alimentare diurno. Questo peggiora ulteriormente il disturbo alimentare di base o rischia di scatenarne uno, creando una spirale difficile da interrompere. La situazione è talmente seria che recentemente la FDA statunitense ha emesso una nota specifica a proposito del rischio che la prescrizione di sonniferi possa scatenare disturbi alimentariscatenare disturbi alimentari.

Come intervenire? La prima arma è la consapevolezza. Se ti accorgi di mangiare durante la notte senza ricordarlo, o se noti segnali sospetti, parlane subito con un medico. Non sospendere mai lo zolpidem da sola: l’interruzione brusca può causare sintomi di astinenza severi. È fondamentale costruire un percorso personalizzato che affronti sia l’insonnia che il disturbo alimentare, magari attraverso un mix di terapia cognitivo-comportamentale, interventi nutrizionali mirati e, se necessario, una revisione farmacologica.

disturbi alimentari

Un segreto per guarire dai disturbi alimentari

disturbi alimentariQuando è stata l’ultima volta che ti sei congratulata con te stessa? Disturbi Alimentari

Disturbi Alimentari. Pensaci un attimo: quante volte hai aspettato l’approvazione degli altri per sentirti soddisfatta? Quante volte hai nascosto la tua gioia per paura di sembrare presuntuosa? Quante volte hai abbassato il volume della tua felicità per non disturbare chi ti stava accanto? Ecco, è arrivato il momento di cambiare e guarire dai disturbi alimentari.

Imparare a congratularsi con se stessi è una delle forme più pure di autoguarigione dai disturbi alimentari. Quando sei tu la prima a emozionarti per i tuoi risultati, stai dicendo al tuo cuore: “Ti vedo. Riconosco quanto hai faticato. Sono fiera di te”. E questo vale per ogni conquista: una promozione, una scelta difficile presa con coraggio, un giorno in cui sei riuscita ad alzarti dal letto nonostante il peso sul petto.

Image ©: RosZie

Non servono medaglie o applausi. Basta uno sguardo sincero e la volontà di riconoscere il proprio valore. Perché la verità è semplice: se non sei tu la prima a credere in te stessa, chi dovrebbe farlo al posto tuo?

Se non celebri tu le tue vittorie, chi potrà mai farlo davvero nel modo giusto? Spesso abbiamo imparato a minimizzare i nostri successi, come se fossero banali o immeritati. Ma ogni passo avanti è una battaglia vinta contro il dubbio, la paura, la stanchezza. Ogni conquista è un segnale che stiamo andando nella direzione giusta. E se impariamo a riconoscerla, quella direzione diventerà più chiara, più forte, più luminosa.

Congratularsi con se stessi è anche un atto rivoluzionario in una società che ci spinge a guardare sempre fuori, a confrontarci, a rincorrere standard esterni. Tu non sei una copia sbiadita di qualcun altro. Sei un essere unico, con il tuo ritmo, i tuoi sogni, le tue ferite e le tue rinascite. Ed è proprio da lì che parte la vera forza: dal riconoscersi, dall’accogliersi, dal valorizzarsi.

Quindi sì, la prossima volta che raggiungi qualcosa – anche se sembra piccola agli occhi del mondo – festeggia. Con un sorriso, con un pensiero, con un gesto che ti dica “ce l’hai fatta”. Non aspettare l’approvazione degli altri per sentirti legittimata a essere fiera di te.

Impara ad applaudire te stessa. Perché ogni applauso interiore è un punto in più sulla strada della guarigione dai disturbi alimentari. E tu, te lo meriti davvero.

La chirurgia bariatrica

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La chirurgia bariatrica rappresenta una delle soluzioni più efficaci per il trattamento dell’obesità patologica che non risponde ai trattamenti tradizionali. Promette benefici significativi sulla perdita di peso e sulla riduzione delle comorbidità quali diabete, ipertensione e apnea notturna. Tuttavia, si tratta di un intervento chirurgico complesso che comporta diversi rischi e non è adatto a tutti i pazienti.

La corretta selezione dei candidati è un elemento chiave per il successo della procedura e per la prevenzione di complicanze a lungo termine. In questo articolo analizzeremo i rischi associati alla terapia bariatrica, le sfide nella scelta dei pazienti e le possibili complicazioni post-operatorie.

Non tutti i pazienti obesi sono idonei per la chirurgia bariatrica. La selezione viene effettuata in base a criteri ben definiti, come:

  • Indice di Massa Corporea (BMI): Generalmente, la chirurgia è raccomandata per pazienti con un IMC superiore a 40 o superiore a 35 se accompagnato da gravi patologie correlate all’obesità.
  • Condizioni di salute preesistenti: Alcune malattie croniche possono rendere l’intervento più rischioso o meno efficace. Ad esempio, pazienti con disturbi cardiaci severi, insufficienza renale o problemi epatici avanzati potrebbero non essere buoni candidati.
  • Stabilità psicologica: L’obesità spesso è legata a disturbi dell’alimentazione o problemi psicologici. I pazienti con depressione grave, disturbi d’ansia non trattati o disturbi alimentari attivi potrebbero non essere idonei, a meno che non vengano supportati con un adeguato percorso psicologico pre-operatorio.
  • Capacità di seguire le linee guida post-operatorie: La chirurgia bariatrica richiede un impegno a lungo termine per adottare nuove abitudini alimentari e uno stile di vita più sano. Pazienti che non sono disposti o in grado di seguire queste indicazioni rischiano di non ottenere risultati soddisfacenti o di sviluppare complicanze.

Uno dei problemi più comuni nella selezione dei pazienti consiste nel sottovalutare gli aspetti psicologici ed emotivi. Alcuni pazienti vedono la chirurgia come una soluzione “magica” alla loro condizione senza comprendere che richiede un cambiamento radicale nel rapporto con il cibo e con il proprio corpo. Questo può portare a risultati deludenti o addirittura a problemi più gravi nel lungo periodo.

Fatte salve le eventuali complicanze chirurgiche immediate, anche quando l’intervento è tecnicamente riuscito, i pazienti possono dover affrontare problemi quali:

  • Deficienze nutrizionali, in quanto il ridotto assorbimento di nutrienti può portare a carenze di ferro, calcio, vitamina B12 e altri elementi essenziali
  • Dumping syndrome, derivante dal fatto che in certi casi il cibo passa troppo velocemente dallo stomaco all’intestino, causando sintomi come nausea e debolezza
  • Reflusso gastroesofageo, causato dall’alterazione del transito alimentare che porta alcuni pazienti a sviluppare un aumento del reflusso acido
  • Disbiosi intestinali, causate dalla profonda alterazione del transito degli alimenti nel tubo gastrointestinale che si verifica in alcuni interventi

E infine, la drastica perdita di peso può avere un impatto significativo sulla salute mentale consistenti in depressione e ansia, derivante dal fatto che alcuni pazienti si trovano a lottare con emozioni negative, specialmente se la perdita di peso non porta il miglioramento emotivo sperato. O ancora, nello sviluppo di disturbi dell’alimentazione anche in pazienti che ne erano privi, in quanto il cambiamento nelle abitudini alimentari può portare a comportamenti alimentari disfunzionali.

Quindi, la chirurgia bariatrica può offrire benefici significativi, ma non è una scelta da prendere alla leggera. La corretta selezione del paziente è fondamentale per minimizzare i rischi e garantire il successo dell’intervento. È essenziale che chiunque stia considerando questa opzione si informi adeguatamente, discuta con il proprio medico e sia consapevole delle sfide fisiche e psicologiche che dovrà affrontare.

 

DCA e disturbi della personalità

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Esiste un legame complesso tra i disturbi alimentari (DCA) e i disturbi della personalità. Un legame che spesso viene sottovalutato anche da clinici esperti e che è responsabile di molti insuccessi terapeutici.

I disturbi alimentari non sono solo una questione di dieta, peso o immagine corporea. Dietro questi comportamenti si celano spesso dinamiche psicologiche profonde, tra cui veri e propri disturbi della personalità. Ma in che modo questi due mondi si intrecciano?

Chi soffre di un disturbo della personalità tende ad avere un’immagine di sé instabile, difficoltà nelle relazioni e modalità di pensiero disfunzionali. Questi stessi aspetti emergono anche nei disturbi alimentari, rendendo il legame tra le due problematiche particolarmente forte. Alcuni studi dimostrano che fino al 50% delle persone con anoressia, bulimia o disturbo da alimentazione incontrollata (binge eating disorder) presenta anche un disturbo di personalità. Ma quali sono le correlazioni più comuni? Vediamole in ordine di frequenza esaminando per ciascuna i possibili punti di contatto con i DCA.

Disturbo Borderline di Personalità (DBP): l’impulsività, l’instabilità emotiva e il senso cronico di vuoto possono manifestarsi con abbuffate seguite da condotte compensatorie (vomito, digiuno o eccessivo esercizio fisico). Chi soffre di DBP spesso usa il cibo come mezzo per regolare le proprie emozioni.

Disturbo Ossessivo-Compulsivo di Personalità (DOC): il perfezionismo rigido e il bisogno di controllo possono portare a diete estreme e schemi alimentari rigidissimi, favorendo disturbi come l’anoressia nervosa restrittiva.

Disturbo Narcisistico di Personalità (DNP): l’ossessione per l’immagine e il desiderio di approvazione possono alimentare comportamenti alimentari disfunzionali, come restrizioni severe o episodi di abbuffate segrete per mantenere un’immagine “perfetta” agli occhi degli altri.

Disturbo Evitante di Personalità (DEP): il forte senso di inadeguatezza e la paura del giudizio possono portare a relazioni problematiche con il cibo, tra isolamento sociale e abbuffate solitarie.

Questa comorbidità che esiste tra DCA e disturbi della personalità ha profonde implicazioni anche sulla terapia. Molti trattamenti per i disturbi alimentari si concentrano sulla dieta e sulle abitudini alimentari, trascurando le radici psicologiche profonde del problema. Affrontare anche i tratti di personalità disfunzionali può rendere il trattamento più efficace e prevenire le ricadute.

Questo è il motivo per cui vi sono alcune terapie che dovrebbero sempre essere incluse nel piano di trattamento dei pazienti che soffrono di disturbi alimentari associati a disturbi della personalità. Tra questi ne citiamo in particolare quattro. Innanzitutto la Terapia Dialettico-Comportamentale (DBT) e la Terapia Cognitivo-Comportamentale (CBT) che rappresentano strumenti preziosi per i pazienti che presentano tratti borderline o impulsivi. Poi vi è la Terapia Schema-Focused che aiuta chi lotta con perfezionismo e rigidità eccessiva. E infine le terapie basate sulla regolazione emotiva che sono fondamentali per chi usa il cibo come valvola di sfogo emotivo.

Capire il legame tra disturbi della personalità e disturbi alimentari significa smettere di vedere il cibo come il vero problema e iniziare a lavorare sulla mente e sulle emozioni. Il primo passo? Un approccio terapeutico che guardi alla persona nella sua interezza.

Se questo argomento ti interessa, condividi il post e aiutaci a sensibilizzare su questa connessione ancora troppo poco considerata!

Ridefinire l’obesità

Ridefinire l’obesità. Per molti anni si è ritenuto che il modo migliore per diagnosticare l’obesità fosse la misura del BMI (Indice di Massa Corporea), in quanto considerato un metodo  semplice ed economico. Si tratta di una misura sulla quale siamo sempre stati abbastanza critici, per lo meno per quanto riguarda le obesità di grado lieve o medio (quelle che nel nostro paese rappresentano la quota più diffusa negli individui affetti da questa problematica).

Abbiamo più volte sostenuto che la semplice misura del BMI non permette di valutare adeguatamente lo stato di salute di una persona e che pertanto il fatto di basarsi soltanto su questo dato poteva portare a errori diagnostici, sia di sottostima che di sovrastima della gravità del problema.Si pensi a individui dotati di elevate masse magre che possono falsare in eccesso la misura del BMI. O, viceversa, a individui che hanno un BMI relativamente basso ma che presentano una quota elevata di grasso viscerale.

Image ©: The Lancet

Oggi, finalmente, qualcuno ci dà ragione e dobbiamo Ridefinire l’obesità. In un articolo uscito questo mese, la commissione per lo studio dell’Endocrinologia e del Diabete della rivista The Lancet ha proposto che, al di là della misura del BMI, la diagnosi di obesità debba essere confermata dalla contemporanea misurazione della circonferenza vita, o dal rapporto vita/fianchi, o vita/altezza. In alternativa si consiglial’esecuzione di una DEXA al fine di avere una misurazione più attendibile del livello di grasso corporeo.

In questo modo, finalmente, si è deciso che la diagnosui deve basarsi sulla quantità di grasso effettivamente presente nel corpo dell’individuo (in particolare a livello viscerale) anzichè su una generica misurazione della massa corporea. La commissione ha inoltre suggerito due nuove categorie di obesità, basate su misure oggettive di malattia ottenute mediante questi metodi.

La prima categoria è chiamata “obesità clinica”, per le persone che hanno già una malattia cronica associata all’obesità. E la seconda categoria è chiamata “obesità preclinica” e significherebbe che una persona ha rischi elevati di sviluppare una condizione di salute a causa del suo livello di grasso corporeo. Due modifiche per Ridefinire l’obesità che faranno la differenza soprattutto in termini di prevenzione delle complcanze.