Esiste un legame tra autismo e disturbi alimentari
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Esiste un legame che pochi conoscono tra autismo e disturbi alimentari. Negli ultimi anni, l’interesse scientifico verso la relazione tra disturbi dello spettro autistico (ASD) e disturbi del comportamento alimentare (DCA) è cresciuto significativamente. Sebbene queste due condizioni possano sembrare distinte a prima vista, emergono sempre più evidenze di una sovrapposizione clinica, comportamentale e neurobiologica che merita attenzione, sia in ambito clinico sia nella vita quotidiana delle persone coinvolte.
L’autismo è un disturbo del neurosviluppo caratterizzato da difficoltà nella comunicazione sociale e dalla presenza di comportamenti ripetitivi e interessi ristretti. In molti casi, queste caratteristiche possono influenzare in modo marcato il rapporto con il cibo.
Ad esempio, l’ipersensibilità sensoriale – molto comune nelle persone autistiche – può rendere alcune consistenze, odori o sapori intollerabili. Non è raro che bambini e adulti nello spettro rifiutino interi gruppi alimentari o mangino solo cibi di un colore o una forma specifica. Questo comportamento, spesso definito come “alimentazione selettiva”, può risultare in carenze nutrizionali e compromettere la crescita o la salute generale.
Inoltre, le rigidità cognitive e comportamentali tipiche dell’autismo possono portare a rituali alimentari molto rigidi o alla necessità di mantenere una routine precisa durante i pasti. Qualsiasi variazione può causare ansia o rifiuto del cibo.
Sebbene l’alimentazione selettiva sia comune nei soggetti autistici, non sempre configura un vero e proprio disturbo del comportamento alimentare secondo i criteri diagnostici. Tuttavia, in alcuni casi, i comportamenti alimentari problematici si intensificano fino a rientrare in diagnosi cliniche come:
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Anoressia nervosa: studi recenti suggeriscono che una percentuale significativa di pazienti con anoressia, soprattutto donne, mostra tratti autistici, anche in assenza di una diagnosi formale. La rigidità cognitiva, l’alessitimia (difficoltà a riconoscere ed esprimere le emozioni) e la tendenza al perfezionismo possono contribuire allo sviluppo e al mantenimento del disturbo.
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Disturbo evitante/restrittivo dell’assunzione di cibo (ARFID): questa condizione, inclusa nel DSM-5, è particolarmente rilevante nel contesto dell’autismo. L’ARFID si manifesta con un’eccessiva restrizione alimentare non motivata da paura di ingrassare, ma da fattori sensoriali, traumi legati al cibo o mancanza di interesse per l’alimentazione
Il legame tra autismo e disturbi alimentari esiste, e non è unidirezionale. Se da un lato l’autismo può predisporre a sviluppare un disturbo alimentare, dall’altro l’esperienza di un DCA in adolescenza o età adulta può mascherare – o rendere evidente – tratti autistici precedentemente non diagnosticati.
Inoltre, molte persone autistiche, in particolare donne, sono spesso diagnosticate tardivamente proprio perché i loro sintomi vengono interpretati erroneamente come manifestazioni di ansia, depressione o disturbi alimentari. Questo fenomeno, noto come camouflaging (mascheramento), può ritardare l’accesso a interventi adeguati.
Comprendere l’intreccio che esiste tra autismo e disturbi alimentari è fondamentale per offrire un supporto clinico adeguato. I trattamenti standard per i DCA, infatti, potrebbero non essere efficaci – o addirittura controproducenti – per una persona affetta da un disturbo dello spettro autistico, se non tengono conto delle sue specificità sensoriali, comunicative e cognitive.
È quindi necessario un approccio multidisciplinare e individualizzato, che coinvolga medici, nutrizionisti, psicologi e terapisti occupazionali. L’obiettivo non è solo “normalizzare” l’alimentazione, ma anche promuovere il benessere globale della persona, rispettando le sue modalità uniche di vivere e percepire il mondo.
Il legame tra autismo e disturbi del comportamento alimentare è complesso e ancora in fase di esplorazione, ma riconoscerlo è un primo passo fondamentale per migliorare la diagnosi, il trattamento e la qualità della vita di chi si trova a vivere questa doppia sfida. La sensibilizzazione, la ricerca e una maggiore formazione degli operatori sanitari possono fare davvero la differenza.
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